sabato 1 dicembre 2012

Un giornalista scomodo


Com’è risaputo, non sono un critico letterario e non sono pertanto in grado di scrivere recensioni. Inettitudine, lo confesso, che non mi ha mai sconvolto l’esistenza. Si dà pero il caso che abbia letto, con appassionato trasporto, “Un giornalista scomodo” (Aliberti, 2008), autobiografia dell’avezzanese d’adozione, e dunque mio conterraneo d’adozione, Gennaro De Stefano, scomparso il primo maggio 2008, e mi dolgo assai di non saperla recensire.
Il libro di Gennaro De Stefano non mi è semplicemente piaciuto. Mi ha emozionato. Mi ha commosso. E ha rinnovato in me l’aspra e vivida fierezza d’appartenere alla sana razza montanara abruzzese. Io infatti sono dell’Aquila, una città nel cui stemma s’erge una nera aquila arcigna, coronata dal motto “Immota manet”. E state certi che noi montanari d’Abruzzo, se il dovere e la dignità ce lo impongono, rimaniamo fermi e arcigni come il granito dei nostri monti sui capisaldi dell’onore e della verità.
Di Avezzano e della Marsica ho una buona conoscenza, a ragione del fatto che fino al 1969, anno della sua morte, vi abitava la mia nonna materna, fascinosa e volitiva signora dagli occhi verdi screziati di pagliuzze d’oro. Anch’io dunque, come De Stefano, ho giocato, insieme ai miei cuginetti, con i bigliardini dell’oratorio situato sotto l’abside della cattedrale dei Marsi, in piazza Risorgimento. Anch’io ho mangiato le fette di cocomero comprate dai venditori ambulanti che, per proteggerle dalle mosche, le esponevano in cassette dalle pareti di rete metallica. Anch’io, come De Stefano, ho viaggiato sulla Millecento di papà per le curve della statale ottantadue, fino a San Vincenzo Valle Roveto, comune confinante con Balsorano (eh, Balsorano, toponimo che avrebbe marchiato a fuoco la mente e la carne di De Stefano), dove la famiglia di mia madre ha la casa avita e i possedimenti terrieri, coltivati a ulivo.
E non solo ho una buona conoscenza dei luoghi, ma pure della gente. Posso perciò assicurarvi che i marsicani sono testardi e sanguigni, giusto come li ha raffigurati De Stefano, nelle cui pagine si riconoscono a occhi chiusi i contadini di Fontamara, nonché lo spirito caparbio di Luca – sì, il Luca siloniano di “Il segreto di Luca” – un impasto di onestà, sopportazione, senso dell’onore e sacrificio. Come anche balza agli occhi, immergendosi nelle pagine di “Un giornalista scomodo”, la fanatica arroganza della borghesia di provincia, specie della borghesia meridionale. E difatti noi aquilani, che di snobismo provinciale siamo imbevuti fino al midollo, tanto d’averne fatto una filosofia di vita, diciamo con grezza e puerile superbia che nel terremoto del ’15 ad Avezzano sono morti i marsi e sono rimasti i cani.
L’autobiografia di De Stefano, in tutta oggettività, si divora come un giallo di gran classe, e ciò grazie alla malizia affabulatoria dell’autore. Malizia che sgorga dal talento e contraddistingue gli scrittori di mestiere, quelli veri, capaci d’intingere la penna nel proprio sangue e nella propria anima. Ecco perché il libro non è soltanto “bello” ma, in un certo senso, “necessario”. Necessario per i lettori.
De Stefano, come i più ricorderanno, il 31 agosto del 1992 subì un’oscena carognata da parte di un pubblico ufficiale. Da parte di un soggetto, cioè, stipendiato da questa nostra repubblichina postfascista che mi dà spesso l’impressione, sotto certi versi, più d’essere figlia spuria della repubblichina di Salò che figlia legittima, come invece dovrebbe, del referendum del 2 giugno ’46.
Un poliziotto, per l’appunto, svolse in maniera criminosa le proprie funzioni d’ufficio e fece infilare cocaina nella macchina di proprietà della moglie del giornalista, il quale per combinazione vi si trovava alla guida. E tutto ciò perché quel giornalista, unica voce fuori dal coro armata soltanto d’intelligenza e professionalità, stava smontando l’indagine sul presunto mostro di Balsorano, il muratore Michele Perruzza, accusato dell’assassinio della nipotina di sette anni, Cristina Capoccitti. Risultato: il giornalista scomodo, immediatamente arrestato, passò due mesi al fresco. Mentre vari anni dovettero trascorrere prima che il sullodato “servitore dello stato”, artefice dello scherzetto da prete (pardon, volevo dire da vice ispettore ps), finisse condannato con sentenza irrevocabile.
De Stefano inizia a raccontarci di sé partendo da quel momento cruciale, per scendere poi a ritroso fino al matrimonio dei genitori e risalire via via agli episodi successivi d’una vicenda esistenziale densa di singolari esperienze, ora dolci ora amare, tutte affrontate, secondo la testimonianza della sua collega Antonella Amendola, con “l’animo di ragazzo mai cresciuto, che andava alla sfida della vita con baldanza ingenua e felice”.
E così, leggendone con gaio accanimento l’autobiografia, ci appassioniamo alle avventure d’un uomo che fu seminarista da ragazzino e funzionario del partito comunista da giovane, per diventare poi, in un incredibile e avvincente susseguirsi di attività, direttore sportivo in squadre di serie C, ristoratore, emigrante in Germania, venditore d’articoli per dentisti, giornalista e scrittore. Ne scopriamo gli amori, la frenetica sensualità tipica dei marsicani, i legami struggenti con i propri cari, le delusioni ideologiche, la malattia che lo avrebbe condotto alla morte e, last but not least, la passione viscerale, irrefrenabile, imperiosa per l’arte di scrivere, che lo ha reso, stando al competente parere del cronista investigativo Edoardo Montolli, “uno dei più grandi giornalisti italiani”.
Se la scrittura – e di conseguenza la lettura – è un processo di scoperta, De Stefano ha colto nel segno, mettendo a nudo lo squallore delle istituzioni pubbliche italiane. Istituzioni alle quali è possibile dare precisi nomi e precisi cognomi. Nomi e cognomi che Gennaro De Stefano, con sprezzante signorilità, ha evitato con cura di citare nel suo libro. Non vi viene infatti mai nominato né il patronimico del vice ispettore di polizia che lo inguaiò, né tanto meno vi si azzarda una qualche ipotesi su chi fosse stato il mandante. A pagina 289 appare comunque un brano rivelatore: “Un avvocato mi raccontò: ‘Qualche giorno prima che arrestassero il poliziotto, io ero nel corridoio della procura quando arrivò l’ex capo. Bussò alla porta della collega che indagava, impegnata in quel momento con un colonnello dei carabinieri. La donna magistrato non fece entrare l’ex superiore nella sua stanza, ma gli parlò sulla porta. Io potei udire distintamente le parole: ‘Tu mi hai insegnato a fare questo mestiere e io l’ho imparato. In questa circostanza so come mi devo comportare, non ho bisogno di consigli’. Quale fosse il consiglio o la richiesta non so dirtelo, però qualcosa era andato a chiedere”.
Ebbene, tale “ex capo” non è ignoto a nessuno. Tra l’altro, è un mio concittadino, ossia un aquilano di buonissima famiglia – tanto buona che nel basso medioevo i suoi avi possedevano, nei dintorni dell’Aquila, decine d’ettari di pascoli utili a nutrire sterminati greggi di pecore. Lo stesso individuo, cioè, che nel mio noir “Un buon sapore di morte” ho chiamato Lorenzo Nardis, cambiandogli di necessità il nome e le origini sociali, poiché mi disgusta, come avrebbe disgustato De Stefano, conferire fama letteraria ad antieroi tanto squallidi.
La sostanza intima, profonda, dei libri non è, come sappiamo, puramente estetica, o puramente tecnica, bensì etica. E l’eticità, nel libro di De Stefano, la si respira dalla prima all’ultima parola, dal primo all’ultimo rigo (p.es. v. a pag. 305: “Avevano vinto i garantisti, aveva vinto un giornalismo scomodo – ma qual è il giornalismo comodo? – e testardo e aveva vinto soprattutto una regola: quando si subisce un’ingiustizia non ci si deve rassegnare, si deve lottare fino in fondo utilizzando tutti i mezzi che il codice consente, anche quelli più remoti”), fino all’impeccabile finale, dove incontriamo uno scrittore, un uomo, che ha saputo morire con il sorriso sulle labbra, resistendo al cancro per sette lunghi anni di vita piena e laboriosa.
Sì, amici, “Un giornalista scomodo” è un signor libro, come se ne legge uno ogni cento, se non forse uno ogni mille, e mi piacerebbe vivere abbastanza da scriverne anch’io uno altrettanto bello. Nella vana attesa m’illudo, forse un giorno lontano, di riuscirci.



2 commenti:

  1. Condivido con lei la grande stima per questa persona

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    1. Uomo che ci ha lasciato un gran ricordo di sé e bellissimi libri. Sono davvero lieto, gentile Pico, che anche lei abbia per lui grande stima.

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