Ho finora pubblicato tre noir (‘‘Commedia all’italiana’’, ‘‘Un buon sapore di morte’’, ‘‘Il destino, forse’’) e tre racconti (‘‘Capitali freschi’’, ‘‘La visita’’, ‘‘Il movente’’, inseriti adesso nella raccolta ‘‘I racconti di Civita’’, Meligrana Editore, Collana just-E) nei quali ho sentito la necessità di affrontare il tema della perniciosa inefficienza delle pubbliche autorità nel nostro paese.
Chi scrive narrativa è soprattutto un testimone. Ha però l’obbligo d’essere un testimone informato e consapevole. Prima di comporre i miei testi ho dunque studiato il problema, cercando di capire le sue cause. La risposta che ho trovato è molto tecnica e riguarda le caratteristiche delle democrazie liberali e delle loro leggi fondamentali. La illustro qui in rapida sintesi, indicando anche l’indispensabile soluzione.
In una democrazia liberale il rapporto tra stato e cittadini è di natura squisitamente patrimoniale. E difatti i cittadini di una democrazia liberale, quali elettori e contribuenti, si mostrano in genere ben disposti a pagar le tasse ‘‘solo se’’ lo stato fornisce loro in contropartita servizi di qualità apprezzabile e a costi accettabili. La retorica delle ideologie patriottarde nelle democrazie liberali non attecchisce.
Nelle democrazie liberali lo stato non è uno strumento di potere, com’è al contrario nei regimi illiberali, bensì una semplice struttura di servizio. Qualcosa, insomma, di molto simile a ciò che gli studiosi di scienze aziendali definiscono ‘‘azienda d’erogazione’’.
Per sapere se una democrazia è liberale o illiberale (eh, sì, purtroppo, esistono anche democrazie illiberali) basta leggere le costituzioni. Una costituzione che ha nel suo preambolo espressioni del tipo: ‘‘Noi, il popolo, per la nostra libertà e il nostro benessere, indichiamo qui di seguito ciò che tu stato devi fare’’ è liberale. Viceversa sono illiberali quelle costituzioni al cui preambolo troviamo espressioni del tipo: ‘‘Io, lo stato, in base a questo o a quel principio sociale o morale, elenco qui di seguito ciò che tu cittadino devi fare’’.
La costituzione della repubblica italiana appartiene al secondo tipo, non al primo. Ciò si deve all’arretratezza culturale e politica dei costituenti. I quali, poverini, scrissero sì una carta di tipo democratico che consente la conquista del potere di governo, per una durata limitata, attraverso la competizione elettorale e garantisce ai cittadini le libertà civili (libertà di voto, libertà d’espressione, libertà di manifestazione, libertà di fondare movimenti politici, ecc.), mentre invece il precedente regime totalitario le libertà civili le aveva eliminate, ma vi inserirono pure, nella carta, i tre principi dottrinali del fascismo. Vale a dire il principio proletario, il principio della superiorità etica dello stato e il principio corporativo .
Il principio proletario lo si trova al primo comma dell’articolo uno della nostra costituzione, sia pure nella forma del cosiddetto ‘‘principio lavorista’’. Il principio della superiorità etica dello stato è sancito al secondo comma dell’articolo quattro (‘‘Io, lo stato, dico a te cittadino quali sono i tuoi doveri morali’’). Il principio corporativo lo si trova un po’ dovunque (natura semipubblica dei sindacati, Cnel, organizzazione corporativa della magistratura).
Gli effetti di questo bel capolavoro d’ingegneria costituzionale sono poteri pubblici superbamente costosi e sovranamente inefficienti (ad esempio, municipalità incapaci di raccogliere l’immondizia, inesistenza di un reale ordinamento giudiziario, sostituito da un simulacro neanche in grado di produrre sentenze in tempi ragionevoli, sprechi immani di risorse in lavori pubblici iniziati e mai terminati, enti inutili a iosa, munifiche prebende a gerarchi e gerarchetti di partito, e via discorrendo).
Ben venga dunque ogni riforma costituzionale che limiti l’invasività e i dannosi poteri dello stato, cancellando dalla carta i tre residuati del precedente regime, e trasferisca maggiori potestà al corpo elettorale.
anche nel precedente regime le tasse si pagavano e sul pagamento delle tasse non ho nulla in contrario, ma in un vero regime democratico le imposte sono abborrite e l'uomo è veramente libero. Viva la teoria economica della condivisione del valore dei beni.
RispondiEliminaIo mi accontenterei di un limite costituzionale alla pressione fiscale. Diciamo massimo 35%, così il ceto politico aprirebbe il rubinetto con maggiore oculatezza.
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