Chi mi conosce sa che ho una miriade di difetti. All’occorrenza so rendermi estremamente odioso e immagino sia questo il difetto che i miei conoscenti considerano il peggiore. Personalmente non lo valuto per niente grave. A mio parere il più serio è un altro.
Non possiedo una sfera di cristallo.
Se ne avessi una potrei prevedere il futuro. Azzeccherei tutti i terni, tutte le quaterne e tutte le cinquine di ogni ruota e nel giro di poche settimane diventerei ricco sfondato. Investirei i soldi così sapientemente guadagnati in vizi e stravizi. Ossia, per essere meno generici, in belle donne. L’unica attività spirituale degna di un uomo consiste infatti nel donarsi anima e corpo alla dea Venere.
Malgrado questa carenza vi sono però alcune fatterelli che riesco anch’io a prevedere. Se un governo attua per esempio politiche economiche procicliche – ossia quelle misure che peggiorano le condizioni del settore privato senza apportare benefici alla finanza pubblica – mi è facile prevedere che il numero dei disoccupati crescerà.
I soliti spiritosoni, sghignazzando, coglieranno subito la palla al balzo per canzonarmi: «Capirai che mago! Qualunque idiota è capace di fare una previsione del genere».
Verissimo, sta però il fatto che i paesi dell’Europa mediterranea, compresa quell’espressione geografica, nonché, secondo l’eminente giudizio del principe Metternich, sedicente Italia, adottando politiche economiche procicliche stanno distruggendo le loro economie e gettando in mezzo alla strada milioni di persone.
Se i governanti dei citati staterelli mediterranei dovessero per miracolo rinsavire, toglierebbero ai loro popoli il cappio che gli hanno infilato al collo riacquistando la sovranità monetaria o battendosi per modificare lo statuto della Bce, al fine di consentirle di finanziare gli stati, come fanno tutte le banche centrali degne di questo nome. L’uno come l’altro sono presupposti indispensabili per poter mettere in campo misure anticicliche che consentano di ridare fiato alle economie dissestate e riassorbire la disoccupazione.
Ma se, come pare altamente plausibile, i governanti non dovessero rinsavire, non resta, quale ultima spiaggia, che un’unica soluzione: ridurre l’orario di lavoro.
Insomma, lavorare meno per lavorare tutti.
Non si creda che si tratti di una trovata strampalata. Da circa un secolo nei cosiddetti paesi sviluppati l’orario di lavoro è sceso a otto ore giornaliere e a tale livello si è grasso modo assestato. Nel frattempo la produttività, vale a dire il valore della produzione per addetto, è aumentata in misura consistente. Il presupposto fondamentale per ridurre l’orario di lavoro, dunque, non manca e appare irrazionale non agire di conseguenza.
In secondo luogo, a partire dagli anni Settanta del secolo passato il pieno impiego pare sia diventato una chimera. Pur nei periodi di vacche grasse, infatti, il tasso di disoccupazione sembra non voler mai scendere, nel migliore dei casi, al di sotto del 3-4%. Qualcuno, al riguardo, parla di disoccupazione ‘‘strutturale’’. Risulta difficile ritenere che in quella percentuale non proprio insignificante si raggruppino solo gli scansafatiche.
Ergo, le buone ragioni non scarseggiano.
Ogni medaglia ha però il suo rovescio. La riduzione dovrebbe avvenire a paghe orarie invariate, altrimenti gli effetti positivi sul tasso di disoccupazione subirebbero il contraccolpo dell’aumentato costo del lavoro. Ciò significa che le paghe mensili di chi attualmente lavora dovranno per forza di cose ridursi.
Tuttavia, chi adesso non lavora e non guadagna disporrebbe di un reddito da spendere. Gli effetti sui consumi, e quindi sulla domanda aggregata, sarebbero perciò positivi. L’economia, in altre parole, tornerebbe a crescere.
Nessun commento:
Posta un commento