venerdì 9 maggio 2014

L'inflessibile statuto albertino

Nessuno di noi ammetterà mai di credere nelle favole. Sta però il fatto che le favole esistono e un mucchio di gente le piglia per oro colato. Una delle più spassose favolette che moltitudini di sedicenti ‘‘esperti’’ da quasi settant’anni vanno raccontando a destra e a manca riguarda lo statuto albertino, ossia la carta costituzionale del regno di Sardegna divenuta, dopo l’annessione dello stivale ai domini sabaudi, costituzione del regno d’Italia.
Si ripete a mo’ di cantilena che lo statuto fosse ‘‘flessibile’’, vale a dire che le sue norme si potevano modificare tramite leggi ordinarie, anziché con procedure più gravose, come è invece per le carte cosiddette ‘‘rigide’’, ad esempio la costituzione della repubblica italiana. A sostegno di tale tesi si citano le ‘‘leggi fascistissime’’, attraverso le quali il famigerato smargiasso romagnolo, alias Benito da Predappio, trasformò lo stato liberale in dittatura.
Si tratta tuttavia di una credenza del tutto fasulla.
I fascisti non cambiarono infatti neanche una virgola allo statuto, che rimase teoricamente in vigore e immutato dalla prima all’ultima parola, né tanto meno lo abrogarono. Agirono in maniera molto più pragmatica, limitandosi a metterlo sotto i piedi con il complice avallo di sua maestà Sciaboletta Savoia.
Il regime totalitario creato dallo smargiasso romagnolo risultava dunque, statuto alla mano, illegale.
Incostituzionale.
Insomma, fu una di quelle tante situazioni della storia d’Italia tragiche ma poco serie.
Se il re Sciaboletta, al quale lo statuto assegnava il potere di sanzione sulle leggi (art. 7) – poteva cioè rifiutarsi di promulgarle anche se approvate dal parlamento –, avesse tenuto fede al giuramento prestato nel momento dell’incoronazione ‘‘di osservare lealmente lo statuto’’ (art. 22) e si fosse perciò rifiutato di apporre la propria firma alle leggi fascistissime perché incostituzionali, con ogni probabilità ci avrebbe rimesso la corona.
Eh, sì, le comode poltrone piacciono a tutti, anche ai re.
Va comunque riconosciuto che, se ci avesse provato, si sarebbe aperta una stagione politica incerta e turbolenta per l’intero paese, non solo per lui.

L’elemento che caratterizzava in maniera specifica lo statuto – oltre al fatto che fosse una carta liberale e, dal punto di vista tecnico, ‘‘breve’’, nel senso che delineava i poteri dello stato in linea generale e senza prescrivere in modo troppo dettagliato le procedure di funzionamento – era la sua natura di costituzione ‘‘graziosamente concessa’’ dal sovrano – ottriata, come dicono le personcine istruite, mentre i tipi molto chic preferiscono addirittura definirla octroyée, alla francese – anziché redatta e deliberata da un’assemblea eletta.
Carlo Alberto lo promulgò il 4 marzo 1848. Nel preambolo lo si definiva ‘‘Legge Fondamentale, perpetua ed irrevocabile della Monarchia’’, la qual cosa lasciava intendere che avesse tutti i crismi di una carta rigida e inflessibile peggio di una statua. Un atto di fede verso il quale, per la verità, non tutti i regnanti si sono sempre mostrati ligi. Non a caso Pio IX, papa-re dello stato pontificio, e Ferdinando II di Borbone, re delle Due Sicilie, le costituzioni da loro graziosamente concesse ai rispettivi sudditi, quasi in contemporanea al re di Sardegna, provvidero ben presto e senza eccessivi complimenti a strapparle e rimangiarsele.
Ma oltre a questo problema, diciamo così, extra giuridico, le costituzioni siffatte ne presentavano un altro. Se discendevano in toto da un atto di volontà del sovrano, possedeva il parlamento la potestà di varare norme di rango costituzionale? La questione si pose qualche anno dopo l’entrata in vigore dello statuto, poiché si sentì la necessità di riformare il senato, che era di nomina regia. Naturalmente, non se ne fece nulla. E proprio perché, in fin dei conti, il parlamento quella potestà non l’aveva. I poteri costituzionali, pur se non era scritto da nessuna parte, appartenevano solo al re.
D’altronde, lo statuto albertino perì per un atto del sovrano. O meglio, del facente funzione. A decretarne la morte provvide infatti il luogotenente generale del regno, colui che sarebbe di lì a breve diventato, per effetto dell’abdicazione di babbo Sciaboletta, il re di maggio.
Fu a causa del decreto-legge luogotenenziale del 25 giugno 1944, numero 151, che lo statuti morì. Al primo comma dell’articolo 1 tant’è si leggeva: ‘‘Dopo la liberazione del territorio nazionale, le forme istituzionali saranno scelte dal popolo italiano che a tal fine eleggerà, a suffragio universale diretto e segreto, una Assemblea Costituente per deliberare la nuova costituzione dello Stato’’.
Sì, lo so, a chi si ciba d’ignoranza e di retorica sembrerà inverosimile che la vigente costituzione repubblicana sia nata per atto di un monarca. O meglio, di un facente funzione, di un semplice principe di Piemonte. Ma la legge non ammette ignoranza.



Nessun commento:

Posta un commento