La figura peggio compresa del nostro sistema costituzionale è sicuramente il presidente della repubblica. Ciò è accaduto e continua a verificarsi perché si è sempre letta la costituzione con gli occhiali della retorica e senza tenere nel debito conto le matrici storiche che ne hanno forgiato il testo
La retorica, come sappiamo, è la corda con la quale i faziosi amano impiccarsi. Gli effetti di uno sport intellettuale tanto inconcludente hanno impedito di riconoscere con franchezza le eredità trasmesse alla costituzione repubblicana dallo statuto albertino. Si è preferito coglierne soltanto le differenze, incappando così in grossolani equivoci.
Durante il regime democristiano, ossia quel periodo storico apostrofato con pietoso eufemismo ‘‘prima repubblica’’, si era soliti definire il capo dello stato ‘‘presidente notaio’’. Gli si accreditavano perciò funzioni pressoché simboliche, riducendone il ruolo a rappresentante dell’unità nazionale, o poco più.
Nell’ultimo ventennio abbiamo al contrario assistito a un sempre più incisivo intervento del presidente sulla scena politica. Coloro che da questa inedita situazione si sono sentiti svantaggiati hanno ben presto cominciato a paragonarlo a un re assiso sulla reggia ex papalina del Quirinale, mentre la parte politica beneficiata lo ha naturalmente elogiato, coniando per lui la qualifica di ‘‘garante della costituzione’’, definizione che nemmeno il lettore più attento troverà mai nella carta costituzionale (aggiungo per inciso che il sindacato di legittimità costituzionale delle leggi è affidato a un organo specifico, la corte costituzionale, appunto, e non al presidente).
Ma allora, vien da chiedersi, come è stato possibile per un notaio diventare re?
Trasgredendo le regole della narrazione drammatica, anticipo fin d’ora il colpo di scena finale e svelo subito che il presidente non è né un re né un notaio. Il suo ruolo politico – e sottolineo, politico – gli è deliberatamente assegnato dalla costituzione, che al riguardo ricalca prerogative che lo statuto albertino riservava al sovrano. L’attuale capo dello stato, oltre a nominare il presidente del consiglio e i ministri (art. 92), ha anche il potere di controfirma sui decreti legge e sui disegni di legge governativi (art. 87). Disponendo di un tale assoluto potere di sanzione sugli atti del governo può, allo stesso modo in cui due più due fa quattro, influenzarne l’indirizzo politico e amministrativo.
Durante il regime democristiano tali potestà del capo dello stato non apparivano evidenti giacché le leve del potere erano detenute dai segretari di partito, i quali solo in casi sporadici accettavano l’incarico di presiedere il consiglio dei ministri, preferendo condizionare dall’esterno l’azione del governo. A quel tempo venivano inoltre elette al soglio quirinalizio sempre e soltanto personalità appartenenti alla maggioranza parlamentare, scevre dunque da motivazioni ideologiche che le spingessero a contrastare governi di colore politico identico al loro. Cane non morde cane, come suol dirsi.
Le circostanze sono mutate con la cosiddetta seconda repubblica, quando coalizioni guidate da un noto femminista, talora godendo in parlamento della maggioranza dei seggi, venivano incaricate di formare il governo. O meglio, l’incarico veniva affidato al noto femminista. E cominciavano per lui gioie e dolori. O meglio, doloretti di pancia. Si è dovuto infatti confrontare di continuo con presidenti della repubblica di colore politico opposto al suo, i quali hanno legittimamente esercitato i poteri loro conferiti dalla costituzione per intralciarne l’operato e pestargli i calli.
E’ la politica, ragazzo.
Una politica lecita e rispettosa della costituzione, beninteso.
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