sabato 25 maggio 2013

Capitali freschi

Lunedì, 21 aprile
Come le rondini la mafia a Civita arrivò in un giorno di primavera. Non era uno stormo, erano solo due e più che a rondini somigliavano a ippopotami, data la stazza. Logicamente non viaggiarono sospinti dalle ali, ma in Lancia Thema targata Torino.
Uscirono dall’autostrada e seguendo le frecce puntarono dritto in centro. In viale Corradino di Svevia si accostarono al marciapiede e chiesero a una vecchina come si arrivasse a via Castello. La vecchina, che era forse un po’ sorda, non capì e dovettero ripeterle la domanda.
La donnetta fornì delle spiegazioni più complicate che utili. Ringraziarono, un po’ delusi, e proseguirono. Adocchiarono però un segnale turistico che indicava la direzione del castello.
Percorsero viale della Croce Rossa. Salirono in via Ovidio, passando davanti alla grotta dov’era ingabbiata una coppia di aquile. Quello al volante le notò di sfuggita.
«Minchia», esclamò, «le aquile».
«Dove?».
«Là, dentro una specie di grotta. Non le vedesti?».
«No».
Sbucarono in piazza Battaglione Alpini. Alla loro sinistra, immersa nel verde del grande parco, baluginò la sagoma di granito della fortezza.
«Ecco il castello», disse quello che guidava.
Girarono intorno alla Fontana Luminosa e si fermarono ai bordi del parco. Domandarono a un vigile dove fosse via Castello.
«È quella lì», additò il vigile.
«Ma c’è il divieto d’accesso», obiettò il guidatore.
«Sì. Vi conviene andarci a piedi».
Scesero dalla macchina. L’uno era un metro e sessantacinque per novanta chili. Il compagno un metro e ottanta per centoventi chili. Misurando a occhio.
Dal bagagliaio ciascuno prelevò una ventiquattrore. Quella del bassotto era in pelle di coccodrillo. L’altro ce l’aveva in pura plastica.
Tagliarono per il parco. L’aria di montagna era frizzante e leggera, imbevuta di luce d’oro, e profumava di resina. Il chiattone, camminando, scrutava la bianca mole del forte spagnolo apparire e sparire tra i rami dei pini.
«Bel posto», disse.
In via Castello cercarono il civico 51. Corrispondeva a un palazzetto fin de siècle restaurato da poco. La tinta avana sembrava fresca, come se avessero appena finito di darla. Sullo stipite c’era la targhetta d’ottone dell’impresa Giuliani. Secondo piano, diceva.
Niente ascensore. Lenti lenti, uno avanti e uno dietro, scalarono le quattro rampe avvinghiati al passamano. Su una porta di cristallo, a caratteri adesivi, trovarono scritto “Impresa Giuliani”.
Entrarono.
Una ragazza batteva a macchina. Sollevò il visino troppo truccato e disse: «Buongiorno».
«Buongiorno. Siamo Carmine Randazzo e Massimo Puleo della SerFin», la informò il chiatto. «Abbiamo un appuntamento con l’ingegnere Giuliani».
«Un momento, prego».
La ragazza si alzò. La gonna era troppo corta e le gambe troppo storte. Volse la schiena agli uomini e traversò la stanza. Carmine Randazzo ammiccò a Puleo, scuotendo il capo all’indirizzo di quelle gambe: uno schifio.
La giovane scomparve in un corridoio. Di lì a poco le sue brutte gambe la riportarono indietro.
«Prego, si accomodino».
La segretaria fece loro strada e li introdusse nell’ufficio del principale.
«Buongiorno!», squillò Randazzo dalla soglia.
«Buongiorno».
Alfonso Giuliani strinse le grasse manone dei suoi ospiti.
«Carmine Randazzo, piacere».
«Alfonso Giuliani. Molto lieto».
«Puleo. Piacere».
«Piacere mio. Prego, accomodatevi».
Si sfilarono i soprabiti mostrando impeccabili divise da uomini d’affari: Randazzo un doppio petto blu e Puleo un doppio petto grigio, ma Giuliani rimase impressionato soprattutto dall’accento siciliano. Si era rivolto a una finanziaria torinese e si aspettava due piemontesi; o almeno gente di lassù, lombardi magari, o tutt’al più veneti, non due pasciutissimi tizi di laggiù. Glielo disse. Randazzo gli rispose con un sorrisetto.
«La Sicilia è bella, ma non dà da vivere a tutti. Emigrammo».
«Da molto?».
«Dieci anni».
«Io dodici», disse Puleo.
«E a Torino vi trovare bene?».
Randazzo ostentò una faccia afflitta. «No. Torino mica è la Sicilia. È...».
«... Torino», concluse Puleo e fece una smorfia.
«Capisco», disse Giuliani, che avrebbe comunque preferito trattare con gente del nord. Della Sicilia e dei siciliani se ne sentivano di cotte e di crude e lui, pur senza averne un motivo preciso, personale, diffidava. Così, per partito preso.
«Fetusa è la vita dell’emigrante», sospirò Randazzo e aprì la ventiquattrore di coccodrillo. Ne estrasse una penna stilografica e un bloc notes, e sorrise. «Allora, ingegnere, ce lo dice per cortesia cosa può fare la SerFin per lei?».
Parlarono fino all’una. O meglio, parlò quasi sempre Giuliani. Di fidi revocati. Di inchieste sulle tangenti che avevano paralizzato gli appalti pubblici. Di villette a schiera che non si sarebbero potute terminare senza un’iniezione urgente di capitali freschi. Disse tutto, senza ritegno, malgrado la diffidenza, malgrado la vergogna, perché era disperato.
Randazzo ascoltò, prese appunti, e pose la domanda cruciale: «Ingegnere, ci dica chiaro e tondo quanto le serve».
«Quattrocento milioni».

Martedì, 29 luglio
Una macchina correva sulla stradina sterrata che portava su a Colle Fiorito. Le gomme raspavano la breccia e innalzavano turbini di polvere. Dall’alto di un’impalcatura Alfonso Giuliani la vide accedere nel recinto del cantiere e bloccarsi sotto l’ombra di una quercia. Riconobbe l’uomo alla guida e gli venne l’impulso di nascondersi. Ma nascondersi dove? All’inferno? Mentalmente imprecò contro la mamma del bambin Gesù e si apprestò a scendere per una scala a pioli.
«Ingegnere», dal basso lo chiamò un operaio, «un signore la cerca».
«Sì, arrivo subito», replicò e mise la scarpa sul primo piolo.
Nino Masciovecchio lo aspettava ai piedi della scala.
«Ciao, Nino».
«Ciao».
Masciovecchio aveva la faccia sudata. Ciocche umide gli si erano incollate alle tempie. Tirò fuori un fazzoletto e si strofinò la fronte e la nuca. Accennò con il muso alle villette in costruzione. «Le avete quasi finite».
Giuliani annuì.
Per qualche istante Masciovecchio rimase a osservare la squadra di muratori che, in fila sull’ultimo ponteggio, intonacavano le pareti esterne, poi sbottò: «Senti, con quelle fatture come la mettiamo?».
«Sei passato in ufficio?», disse Giuliani. «Hai parlato con Randazzo?».
«Ci sono passato, sì». Masciovecchio ripiegò il fazzoletto e se lo cacciò in tasca. «Vuoi sapere che mi ha detto?».
Naturale che non voleva saperlo. Cioè, se l’immaginava benissimo.
«Lei non mi deve scassare la minchia, ecco che mi ha detto. Alfo’, di’ a quel trippone che se non mi paga io metto tutto in mano all’avvocato».
«Ssst, abbassa la voce».
«E no che non l’abbasso. Cavolo, ormai avanzo quasi dodici milioni, ce l’avrò pure il diritto di alzare la voce, no?».
Giuliani lo prese per un braccio e lo spinse verso la quercia dove Masciovecchio aveva posteggiato l’auto.
«Parla piano, per favore, ci sono gli operai».
«E be’? Mi frega tanto a me se sentono».
«Ma non capisci, sono siciliani. È tutta gente loro».
Masciovecchio lo fissò stupito. «Pure gli operai?».
Giuliani confermò con un colpetto di ciglia.
«Tutti?».
«Tutti».
«E quelli che tenevi prima?».
«Licenziati».
Masciovecchio scosse la testa. Una goccia di sudore in bilico sulla punta del naso cadde a terra. «Alfo’, ma che razza di soci ti sei trovato?».
«Non lo so. Ti giuro su mia figlia che non lo so».
«Non lo sai, o fai finta di non saperlo?».
«Che vorresti dire? Tu mi conosci da vent’anni. Ti sembro tipo io da...».
«Sì, ti conosco, però...».
«Però?».
«Niente, solo che...». Masciovecchio infilò una mano in tasca e impugnò il fazzoletto. «Pensavo a Ludovici».
«E adesso che c’entra Ludovici, scusa».
«Gliel’avete pagata la sabbia? Sii sincero».
Giuliani non rispose.
Masciovecchio si passò il fazzoletto sulla fronte e sulle guance. «È venuto pure lui a bussare a quattrini? Di’ la verità».
«Be’...».
Masciovecchio si passò il fazzoletto dietro la nuca. «Domenica notte a Ludovici hanno bruciato un camion».
«Sì, l’ho saputo».
Masciovecchio ripiegò il fazzoletto. «Non è che è stata una pensata di questi amici tuoi, eh?».
«Un momento, un momento. Adesso esageri».
«Esagero?». Rituffò il fazzoletto in tasca. «Preghiamo Dio che sia così».

Mercoledì, 24 settembre
La notizia era stampata in prima pagina. RIPRENDE A PALERMO LA GUERRA DI MAFIA. “Massimo Puleo, 38 anni, è stato ucciso ieri sera a Palermo, nella centralissima via Maqueda, raggiunto alla testa da tre colpi di pistola sparatigli a distanza ravvicinata da un killer che ha agito a bordo di una moto di grossa cilindrata. Il Puleo, nativo di Polizzi Generosa e dipendente di una società finanziaria con sede a Torino, secondo gli inquirenti era da ritenersi personaggio vicino alla cosca delle Madonie...”. L’articolo era corredato da una fototessera della vittima e da una fotografia notturna del suo voluminoso cadavere, ammonticchiato sul marciapiede di via Maqueda al riparo di un lenzuolo bianco.
Alfonso Giuliani lesse il servizio fino in fondo. Lesse le didascalie. Levò gli occhi dal giornale e rivolse uno sguardo spento allo spettacolo incorniciato nella finestra. Il castello di Civita, acquattato nel lago verde dei pini, sfolgorava nella luce settembrina. Alle spalle del forte la cresta del Corno Grande fendeva l’azzurro del cielo. Sì, una lama conficcata in cielo era la montagna grigia. E una lama seghettata, simile a quella, trucidava in quei momenti le viscere dell’imprenditore.
Semplice, semplicissimo, era la fine: l’azienda era andata. Kaputt.
Vide che ora fosse. Le lancette segnavano le nove e mezzo. Uscì dalla stanza, attraversò il corridoio.
«Randazzo non è ancora venuto?», domandò alla segretaria.
«No».
Se l’è squagliata, il verme”. O magari avevano ammazzato pure lui. L’idea gli piacque. Era giusto quel che si meritava, maledetto panzone.
«Vado al cantiere», disse alla ragazza.
Lei annuì.
Prese la macchina e corse a Colle Fiorito.
Si meravigliò di trovare gli operai al lavoro. Non sapevano nulla? Non avevano ricevuto istruzioni? O forse loro, chissà, non c’entravano niente: poveracci sfruttati dai boss.
«Per caso, s’è visto il signor Randazzo?», chiese a due manovali impegnati alla betoniera.
«No».
Veloce, ispezionò il cantiere, tanto per salvare la forma, e rimontò in macchina, deciso a colpire duro. Dopotutto, cos’altro gli rimaneva da perdere? Zero, se non la reputazione di uomo onesto. Dunque, l’avrebbe tutelata.
Raggiunse il tribunale, che era l’edificio pubblico più brutto e moderno della città, e salì negli uffici della procura.
«Desidera?», lo intercettò un usciere.
«Dovrei sporgere una denuncia».
«Vada in fondo al corridoio, oltre quella vetrata».
Avanzò lungo il corridoio e superò la vetrata. “Sezione di polizia giudiziaria”, avvisava una targhetta. Alla prima porta aperta chiese: «Permesso?».
Un giovanotto biondo, in giacca beige e cravatta gialla, sedeva a una scrivania. Gli buttò addosso un’occhiata scostante.
«Sì, desidera?».
«Vorrei sporgere una denuncia».
Il giovanotto sollevò le ciglia. «Ha preparato un esposto?».
«No».
«Allora scriva un esposto e ce lo invii. Oppure, se vuole, può rivolgersi alla questura, o ai carabinieri».
«Guardi, si tratta di mafia».
Il giovanotto non gli negò un’espressione divertita. «Addirittura!». E poi, sempre con lo stesso tono: «Ma ne è sicuro?».
«Se non fossi sicuro non sarei qui».
Lo esaminò dubbioso. «Lei come si chiama?».
«Alfonso Giuliani».
Lo appuntò su un foglietto.
«Risiede a Civita?».
«Sì. Via Cadorna 5».
«Professione?».
«Imprenditore edile».
Lo aggiunse al nome e all’indirizzo e si alzò. «Mi aspetti, torno subito».
Il “subito” durò venti minuti e spiccioli.
«Quando riapparve ordinò: «Venga con me, prego».
Percorsero il corridoio a ritroso. Il giovanotto bussò a una porta. La targhetta annunciava: “Dott.ssa Ida Squarciapini. Sostituto procuratore”.
Era secca e nera, sulla trentina, con un naso a pinna di squalo. Sulla scrivania microfono e registratore erano già in attesa.
Alfonso Giuliani raccontò quanto era successo. Il magistrato assorbì la storia senza muovere un pelo. Il registratore, con ogni probabilità, si emozionò più di lei.
«Bene», disse infine la donna, «vedremo cosa possiamo fare».
Tre giorni più tardi, all’alba, sette poliziotti piombarono in casa dell’ingegnere muniti di un mandato di perquisizione e di un mandato di arresto.

Giovedì, 13 novembre
«Si accomodi», disse il secondino.
Gli spalancò la porta di metallo e l’avvocato Properzi entrò nel parlatorio.
La porta venne richiusa e la serratura scattò quattro volte.
La stanza non era grande. Sulla parete opposta, due finestre a vasistas, con le inferriate. In mezzo al locale, un tavolo con il piano di formica verde, tipo quelli che si usano nelle mense aziendali. Alla parete di destra, una seconda porta di metallo. Nella parete a sinistra, un vetro. Al di là del vetro, un agente di custodia sorvegliava il parlatorio. Vicino al tavolo, Alfonso Giuliani, avvolto in un cardigan di lana blu. Teneva le mani infilate sotto le ascelle e batteva i piedi. Sicuro, faceva freddo. Non c’erano termosifoni.
L’avvocato poggiò sul tavolo la borsa di pelle.
Si scambiarono una stretta di mano e sedettero uno di fronte all’altro. L’avvocato non si tolse né la sciarpa né il loden. Non si tolse nemmeno i guanti.
«Come va, ingegnere?».
«Male. Da una settimana mi perquisiscono la cella ogni tre ore, giorno e notte». Abbassò le palpebre. «È da impazzire».
«Deve tener duro».
«Sì, ci provo, ma è una tortura». Non si radeva da chissà quanti giorni e la tintarella presa al cantiere si era ormai scolorita. Era dimagrito. «Senta, ma è legale tutto questo?».
«Il regolamento glielo consente, quindi è legale. Naturalmente non lo farebbero se la Squarciapini non gliel’avesse... raccomandato».
Alfonso Giuliani domò l’impulso di gridare una bestemmia. Con un gesto brusco sollevò il bavero del cardigan, serrandoselo intorno al collo.
«Stia calmo».
«Sì, sì. Scusi». Si passò una mano sulla fronte. «Ci sono novità, vero?».
L’avvocato Properzi gli rispose con un cenno affermativo.
«Buone?».
Con la testa l’avvocato fece segno di no. Alfonso Giuliani strinse i pugni.
«Hanno scarcerato Randazzo».
«...!».
«Si è pentito».
«...?».
«È diventato un collaboratore di giustizia. Ne è uscito fuori, capisce? Adesso gli pagano uno stipendio e lo portano a zonzo sotto scorta».
«Gesù».
«Non solo, ma l’ha messa nei guai. Guai seri, dico».
«A me?».
L’avvocato annuì.
«Un momento, un momento. Io sono andato a denunciarlo, santo Iddio».
«D’accordo, ma la Squarciapini la interpreta come una mossa da lei tentata per salvarsi in extremis».
«Ma è scema?».
«No, scema no. È ambiziosa. Vedesse i giornali come la incensano. È l’eroina che ha stroncato le infiltrazioni mafiose».
«E il mafioso sarei io? Ma sono usciti pazzi?».
L’avvocato estrasse un fascicolo dalla borsa e squinternò i fogli finché non ritrovò quello che cercava. «Ecco cosa ha dichiarato Randazzo. A febbraio lei si sarebbe recato a Palermo per...».
«A Palermo? Io? Ma se non ci sono mai stato in vita mia. Glielo giuro su mia figlia, avvocato. Mai stato in Sicilia».
«Randazzo invece non solo sostiene il contrario, ma aggiunge che a Palermo lei avrebbe incontrato un certo...», fece scorrere un dito sul foglio, «Aricò. Michele Aricò».
«E chi è?».
«Stando ai verbali sarebbe un personaggio di spicco della cosca delle Madonie».
«Gesù. E come l’avrei conosciuto?».
«Randazzo questo non lo spiega. Dice però che lei avrebbe offerto ad Aricò la disponibilità dei suoi conti bancari per consentirgli il riciclaggio di denaro sporco».
«Assurdo. Le banche mi avevano già bloccato i conti correnti. Non sarebbe stato tecnicamente possibile».
«Sì, tuttavia resta il fatto che lei è entrato in società con loro».
«Con loro... con la SerFin».
«Appunto».
«Ma scusi, dovevo sognarmelo che dietro la SerFin si nascondeva la mafia? Ricevetti un dépliant pubblicitario, come se ne ricevono tanti. Spedito da Torino, badi bene, da Torino. Telefonai e a fine aprile si presentarono Randazzo e Puleo. Come potevo immaginare che erano mafiosi? Si dichiararono disponibili a finanziare la mia impresa, purché gli cedessi il cinquanta per cento delle quote. Certo, era un accordo tutto a loro vantaggio, ma non avevo scelta, le banche stavano per saltarmi addosso. Oltretutto, quando andammo dal notaio per la cessione delle quote e deliberare l’aumento di capitale, Randazzo si presentò con tanto di certificato antimafia».
L’avvocato radunò i fogli sparsi sul tavolo e li rimise nella borsa. «Presenterò al gip istanza di scarcerazione. Secondo me possiamo convincerlo, ma servono argomenti solidi». Strofinò ripetutamente il pollice contro l’indice, occultando la mano con la borsa, di modo che la guardia carceraria che stava al di là del vetro non potesse vedere. «Sa, il giudice Flati ha il vizio delle carte».
Alfonso Giuliani posò uno sguardo immobile in faccia al suo difensore. «E quanto servirebbe?».
«Bastano dieci milioni. Guardi, parlo per esperienza diretta».
«Dieci milioni, eh? E dove li prendo, li vinco al lotto?».
«Be’, forse suo suocero...».
«No, no».
«Ma perché? Avremmo la garanzia di ottenere almeno gli arresti domiciliari».
«No, no. Mio suocero già paga i suoi onorari. Non posso chiedergli anche questo».
L’avvocato sospirò. «Come vuole». Fece un cenno all’agente seduto oltre il vetro per avvertirlo che il colloquio era concluso. «La saluto. E mi raccomando, tenga duro».
Alfonso Giuliani trovò la forza di abbozzare un sorriso. «Sì, stia tranquillo».
S’impiccò quella notte, legando alle sbarre della finestra una striscia di lenzuolo attorcigliata. La forca era rudimentale ma funzionò a dovere. Mentre dimenava gli arti negli ultimi sussulti credette di vedere sua figlia in lacrime. «Perdonami», le disse, senza accorgersi che dalla bocca non gli usciva alcun suono.









3 commenti:

  1. Mette quasi i brividi a tratti, sei davvero bravo.

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    1. Ti ringrazio di cuore, Luigi. Però la bravura, in realtà, è tutta della mafia e dei cosiddetti organi inquirenti. Il racconto riferisce, infatti, un episodio accaduto davvero a metà degli anni Novanta. L'ho solo drammatizzato un po'.

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    2. Oh ma anche l'esposizione, lo stile che sa quando essere essenziale, l'attenzione ai dettagli, è tutto perfetto ed è solo merito tuo.

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