lunedì 26 novembre 2012

Contro la cultura bisbetica


Nel 2008 venni intervistato da un sito culturale. Dopo qualche mese di presenza quell’intervista scomparve dalla testata telematica. Ignoro le ragioni, ma ho un sospetto. A Natale il suo direttore m’inviò gli auguri. Gli risposi telegraficamente: ‘‘Grazie, altrettanto’’. Forse si aspettava qualcosa di più natalizio, con gli scampanellii, le palline colorate e una stellina splendente in cima all’albero.
La ripropongo qui – a casa mia, potrei dire – perché mette a nudo i miei gusti. Soprattutto le mie preferenze e le mie antipatie letterarie. E a me piace giocare a carte scoperte.

Un’intervista che è anche uno scambio di battute. Gabriele Damiani racconta di sé e del suo nuovo romanzo intitolato “Un buon sapore di morte”. La storia è ambientata a Civita, “fantomatico capoluogo della provincia abruzzese”, e ha per protagonista il commissario Mauro Alesi.

Mi racconti un po’ di lei e del suo approccio al mondo della scrittura.
«Sul mio conto non ho molto da dire. Sono abruzzese, nato cinquantadue anni fa a settecentoventi metri di quota, tale è infatti l’altitudine dell’Aquila. Mi è perciò naturale amare la cruda asprezza delle mie montagne e la loro stupefacente spettacolarità. Ho ricevuto dai miei genitori un’educazione impeccabile, grazie alla quale considero, affronto e mi godo la vita per quello che è, cioè una ruvida avventura. Ecco perché per me scrivere è così essenziale. Mettere nero su bianco, parola dopo parola, ciò di cui siamo testimoni, mettere nero su bianco le nostre come le altrui esperienze, rappresenta la più eccitante e godibile delle avventure. Non a caso a diciassette anni ero già cronista in un quotidiano di provincia, “Il Mezzogiorno d’Abruzzo”, che da decenni non si stampa più. In seguito sono stato, sia pure non contemporaneamente, imprenditore, consulente fiscale e professore di metodologia della scienza economica, finché mi sono arruolato, forse allo scopo d’imitare Ernest Hemingway, nel corpo militare della Croce Rossa, di cui sono ufficiale. Il primo racconto, intitolato “L’ultimo incontro”, lo scrissi nel 1971, quand’avevo quindici anni. È apparso qui e là innumerevoli volte, sia su riviste sia su internet. Anzi, la rivista “Il convivio” l’ha appena ripubblicato sul numero 34, Luglio-Settembre, di quest’anno. Ma il primo che riuscii a pubblicare fu “Il movente”, uscito inizialmente su “Inchiostro”, nel giugno del 1997, e poi, nel corso degli anni, su “Cambio”, su “Noialtri”, su “Universo”, su “Cronaca Vera” e su “Tonic Magazine”».

Quando e perchè ha iniziato a scrivere?
«Cominciai da ragazzino e il perché è presto detto. Lessi, nell’antologia di testo della prima media, “Niente di nuovo sul fronte occidentale” di Erich Maria Remarque e ne rimasi commosso e sbalordito. Fino a quel momento avevo letto i libri di fiabe e gli albi di “Collana Eroica”. “Niente di nuovo sul fronte occidentale” fu il primo romanzo in cui m’imbattei, grazie al quale capii il valore stupefacente della prosa narrativa. Se la creatività umana era capace di arrivare a tanto, allora il massimo in assoluto cui potessi aspirare era diventare scrittore. E cominciai subito a darmi da fare per raggiungere lo scopo, intestardendomi a provare e a riprovare all’infinito per apprendere i rudimenti del mestiere».

In termini umani, cosa significa per lei scrivere?
«Graham Greene non si spiegava come facciano a non impazzire coloro che non svolgono un’attività creativa. È una domanda che mi pongo anch’io. E, in definitiva, se scrivo è perché bisogna pur far qualcosa per non impazzire. Dirò quindi che scrivo per non impazzire. A livello umano non mi sembra poco, se uno ci riesce».

Quali sono i libri che più l’hanno formata?
«Lessi, dopo Remarque, Malaparte, Pavese e Hemingway, e la loro mostruosa bravura mi lasciò letteralmente senza fiato. Se uno voleva imparare a scrivere, quelle erano le stelle polari».

Il libro più bello che ha letto negli ultimi tre anni?
«E lei ritiene che negli ultimi tre anni mi sia limitato a leggere un solo libro formidabile? No, no, no, sbaglia, e di grosso. Io amo leggere e ho avuto, negli ultimi tre anni, la strepitosa fortuna di trovarne e goderne in numero soddisfacente. In elenco, sono: “Un amore di zitella” di Andrea Vitali, “La signorina Tecla Manzi” di Andrea Vitali, “La figlia del podestà” di Andrea Vitali, “Il procuratore” di Andrea Vitali, “Olive comprese” di Andrea Vitali, “Il segreto di Ortelia” di Andrea Vitali, “La modista” di Andrea Vitali, “La tela di Sant’Agata” di Patrizia Morlacchi, “Il treno” di Georges Simenon, “Mi piaci da morire” di Federica Bosco, “Cercasi amore disperatamente” di Federica Bosco, “L’amore non fa per me” di Federica Bosco, “Un giornalista scomodo” di Gennaro De Stefano, “Il vizio” di Carmen Scotti e “L’ottava vibrazione” di Carlo Lucarelli. Inoltre ho riletto, perché è impossibile non rileggere di quando in quando i libri che si amano, “Addio alle armi” di Ernest Hemingway, “Fiesta” di Ernest Hemingway, “I quarantanove racconti” di Ernest Hemingway, “La fine dell’avventura” di Graham Greene, “La bella estate” di Cesare Pavese, “Il giorno della civetta” di Leonardo Sciascia, “Una storia semplice” di Leonardo Sciascia, “Don Camillo” di Giovannino Guareschi, “Il segreto di Luca” di Ignazio Silone, “I Malavoglia” di Giovanni Verga, “La promessa” di Friedrich Dürrenmtt, “Il sospetto” di Friedrich Dürrenmtt e “Il deserto dei Tartari” di Dino Buzzati. Ha la mia parola d’ufficiale che non ne ho dimenticato nessuno».

Ma lei cosa intende per “libro bello”?
«Un testo che conquisti il cuore e il cervello del lettore. Prosa che dia emozione e che faccia riflettere. Oh, non volendo le ho dato la migliore definizione possibile di opera narrativa, mi sa».

E quello che meno le è piaciuto?
«Il più brutto in assoluto che abbia letto da quando sono nato è “City”, di un certo Baricco Alessandro. Illeggibile e impubblicabile. E infatti sono riuscito, con tutta la mia santa pazienza, ad arrivare fino a pagina nove, poi l’ho buttato nelle fiamme del caminetto. Un altro superlativo esempio di non-romanzo, che la mia insaziabile curiosità mi ha spinto a leggere, mettendoci molti mesi, benché sia un libercolo di un centinaio scarso di paginette, è “Va’ dove ti porta il cuore”, scritto dalla nipote di Italo Svevo, giavanotta della quale, per carità di patria, non cito il nome. Un terzo cospicuo esempio di non-libro è “Spider”, scritto da un certo McGrath Patrick, finito pure quello in mezzo alle fiamme. Una pizza micidiale».

Qual è il rapporto con la sua regione e con la sua terra?
«È lo stesso rapporto che una pianta ha con il terreno dal quale spunta. Anche noi esseri umani in realtà abbiamo le radici, pure se non sembra. E le mie radici di aspro montanaro abruzzese forte e gentile affondano nella roccia dei miei Appennini, anche quando mi trovo a migliaia di chilometri di distanza».

Cosa le piace e cosa non le piace dell’editoria odierna italiana?
«Mi piacciono i miracoli. Chi avrebbe mai immaginato che in Italia potesse esistere un editore professionalmente tanto preparato da pubblicare il geniale Andrea Camilleri? Disprezzo, date tali premesse, l’incompetenza e il dilettantismo dei correttori di bozze, che adesso si fanno chiamare editor, all’americana. Chi avrebbe mai immaginato che potessero esistere correttori di bozze tanto incompetenti da rifiutare, per lunghissimi lustri, di stampare i libri del geniale Andrea Camilleri? Una casa editrice dovrebbe essere un’impresa commerciale e dovrebbe pertanto puntare alla massimizzazione dei profitti. E invece gli editori hanno in testa tutti i bernoccoli possibili e immaginabili, fuorché il bernoccolo degli affari. Chi vivrà riderà ancora a lungo».

Cosa le piace e cosa non le piace del panorama culturale italiano d’oggi?
Il cinema non vale una cicca, la grande stagione cinematografica è ormai morta e sepolta, l’unico cineasta oggi vivo è Giuseppe Tornatore, tutti gli altri sono puri simulacri. Il teatro non esiste. Idem la musica, ad eccezione di Ennio Moricone. Non parlo naturalmente della musica leggera, che a me non piace perché la trovo troppo pesante. L’architettura, malgrado goda di una sperticata pubblicità, fa sganasciare dalle risate. Va meglio per la pittura. Per la letteratura, al contrario, è un momento magico. Chi si sarebbe mai sognato che in un paese a basso livello d’istruzione come il nostro si potessero trovare nelle librerie i romanzi di Andrea Vitali, Andrea Camilleri, Federica Bosco, Gianrico Carofiglio, Carlo Lucarelli? Lassù qualcuno ci ama, viene quasi da pensare. Peccato però che io non sia credente».

Come è arrivato alla pubblicazione del suo lavoro?
«Grazie a “Il movente”. Sì, il racconto di cui le accennavo in precedenza, uscito la prima volta nel 1997 su “Inchiostro”. All’inizio di quest’anno lo inviai al premio letterario “Ilbox”, indetto da Aliberti Editore in collaborazione con “Cronaca Vera” e Tonic Network Benessere. Lo lesse il presidente della giuria, Edoardo Montolli, che oltre ad essere un raro (in Italia) giornalista investigativo e un invidiato (da me e da molti altri) autore di ottimi thriller, è anche direttore della collana Yahoopolis per Aliberti Editore. Gli piacque al punto che il 12 febbraio mi chiamò al telefono per chiedermi se avevo qualche romanzo nel cassetto. Li avevo e glieli mandai. Il 12 marzo mi richiamò per dirmi che li aveva letti e che li avrebbe inseriti nella sua collana. Ho di conseguenza nei riguardi di Montolli un debito inestinguibile, e non solo perché gli devo la gioia d’essere giunto in libreria, ma per tutta una serie d’altre infinite ragioni, compresa quella d’aver scritto una luminosa prefazione al mio libro».

Il suo romanzo è un noir: come mai ha scelto di cimentarsi con la narrativa di genere?
«Quand’ero un ragazzino pletore e pletore d’intellettualoidi spargevano ai quattro venti la fenomenale notizia che in Italia il più grande prosatore vivente fosse l’aspirante pornografo Pincherle Alberto detto Moravia. Il soggetto in questione, se avesse saputo scrivere, forse sarebbe stato davvero un grande scrittore. Le trame, dopo tutto, non gli riuscivano male. Tant’è che i film tratti dai sui libri erano eccellenti, in quanto le sceneggiature venivano riscritte da veri professionisti, ma i suoi libri rimanevano penosi senza rimedio. Il Pincherle, poverino, con la penna non ci si raccapezzava proprio, digiuno com’era di tecnica e costituzionalmente incapace d’esprimersi con una prosa accattivante. E pretendeva pure di ricevere il Nobel! Insomma, un dilettante da operetta, una macchietta italica che sarà ricordata dai posteri con sincero sollazzo. Notavo contestualmente che da noi autori di gialli non esistevano. Non potevo difatti ancora sapere, perché purtroppo la Sellerio non era ancora nata, che durante il nero ventennio avevamo avuto il talentuoso Augusto De Angelis. La Rai, è vero, negli anni Sessanta trasmetteva sceneggiati ricavati dai suoi libri, con Paolo Stoppa nei panni del commissario De Vincenzi, ma nelle librerie non si trovavano. Leggendo Simenon e Chandler mi rendevo inoltre conto della grande abilità tecnica e della professionalità indispensabili per scrivere un giallo. Mi era perciò facile giungere alla logica conclusione che un penoso dilettante come l’aspirante pornografo Pincherle Alberto detto Moravia non sarebbe mai stato all’altezza di scrivere un giallo. E se noi in Italia non avevamo giallisti, a parte la superba eccezione di Sciascia, era perché eravamo privi d’autori capaci di scriverne, dato che un giallo è un genere difficile da affrontare e solo talenti straordinari come Simenon o Chandler o Dürrenmatt o Sciascia erano in grado di farlo. E da questa semplice constatazione ho preso lo stimolo per scrivere gialli. Mi sono cioè lasciato impossessare dal gusto di affrontare un genere difficile, alla portata solo dei veri scrittori».

Cos’è per lei la narrativa di genere?
«Tutta la narrativa è di genere. Solo il defunto Siciliano Enzo distingueva tra narrativa di genere e narrativa “tout court”, come diceva lui per far credere al popolino d’essere una personcina istruita. Ma il defunto Siciliano Enzo, essendo un patetico cultore dell’aspirante pornografo Pincherle Alberto detto Moravia, di letteratura non ne capiva ovviamente un emerito nulla».

Il suo romanzo ha un titolo forte: “Un buon sapore di morte”…
«Forte? Dolce, a me pare, romantico. Va bene, va bene, scherzavo. Ma non sono stato io a sceglierlo, vi ha provveduto una delle protagoniste del libro, che in un momento cruciale della vicenda chiede al commissario Alesi: “Non ti piacciono i cimiteri?”. Ricevuta risposta negativa aggiunge: “A me sì, hanno un così buon sapore di morte”. E il lettore a quel punto scoprirà che nel titolo è racchiuso il senso profondo di tutta la storia».

Quanto tempo ha lavorato alla stesura di questa storia?
«Un tempo infinito. So che nessuno ci crederà, visto che dà l’impressione d’essere stato scritto di getto, tuttavia iniziai il romanzo nel 1998 e lo finii nel 2003. Ciò avvenne perché alla sua stesura ho potuto dedicare non più di due o tre mesi l’anno, in quanto in quel periodo ero molto preso dai miei interessi patrimoniali».

Com’è quando scrive? Metodico, disordinato, improvvisa, si organizza… che fa?
«Mio Dio, questa sua domanda mi lascia inorridito. Ho diretto aziende e ho insegnato economia nella più grande università d’Italia. Inoltre, sono un ufficiale. Come può venirle in mente che io possa essere disordinato o, peggio, che improvvisi? Solo i maledetti dilettanti improvvisano, incapaci come sono di programmare. Io invece amo lavorare con la precisione di un orologio svizzero a cucù. E mi godo il mio lavoro minuto per minuto. Godimento e precisione svizzera sono per me sinonimi».

Buono a sapersi e molti complimenti. Ma, battute a parte, mi dica: il romanzo è ambientato a Civita, “fantomatico capoluogo della provincia abruzzese”. Come è nata questa città?
«Nacque alla metà del tredicesimo secolo, grazie a una bolla di Federico Secondo di Svevia che ne autorizzava la fondazione. Le ragioni furono di squisita natura economica. Si rendeva infatti necessario creare un centro mercantile per smerciare la lana prodotta dagli ovini sui pascoli alle pendici del Gran Sasso».

A quali città si è ispirato?
«Alla mia, a L’Aquila. Dico sul serio».

L’Abruzzo, narrativamente parlando, che tipo di territorio rappresenta?
«E me lo chiede? È la terra dove sono nati Ignazio Silone e Ennio Flaiano. Quest’ultimo è l’autore di “Tempo di uccidere”, un romanzo semplicemente perfetto, e il primo è l’autore di “Fontamara”, un capolavoro».

Sì, glielo chiedo. Per dirla tutta l’Abruzzo è anche la terra dove sono nati Mario Pomilio e Laudomia Bonanni, Gennaro Manna ed Eraldo Miscia, lo stesso D’Annunzio… Ma andiamo avanti.
«Narrativamente parlando, l’Abruzzo è una terra stupenda. Certo, nel 1863, in una cittadina della costa, per un’ostile scelta del destino, vi nacque purtroppo un grosso trombone, di cui, per gentilezza d’animo e per non sporcarmi la bocca, non pronuncerò il nome. Costui comunque era, e gli va riconosciuto, un abile mestierante. Eia eia, alalà. Appunto».

È nel destino del Vate quello di essere amato e odiato. Senta, cos’è per lei la provincia?
«La provincia è la madre di tutti i romanzi. Be’, no, forse ho esagerato. Diciamo del novanta per cento. La provincia è la personificazione dell’ipocrisia, lo squallore umano ammantato di perbenismo e quieto vivere. Per uno scrittore, una vera miniera».

Quella che lei racconta è una provincia-teatro: tanti personaggi, tante figure, tante vicende…
«Sì. Non mi dica che le dispiace».

Manco per sogno, mi piace molto. Ma di mezzo c’è una tinta nera…
«Tinta nera, dice? Io preferisco chiamarla realtà. Sì, di mezzo c’è la realtà. Che vogliamo farci, non so scrivere favole».

Buon per lei. Sbaglio se parlo di sapore tragicomico del romanzo?
«Non sbaglia affatto. Anzi, afferma la pura e semplice verità. L’Italia d’oggi, del resto, è il paese più tragico e ridicolo esistente al mondo, pari solo all’Iran dei santoni e alla mitica repubblica delle banane. E si dà il caso ch’io racconti l’Italia dei nostri giorni, dove siamo tutti costretti a ridere per non piangere.

Quindi la provincia è il teatro della commedia – e della tragedia – umana?
«Eh, così è, se ci pare».

Ci pare, ci pare. Il suo romanzo è un mix di finzione narrativa e fatti realmente accaduti. Come mai questo mix?
«Semplice, le vicende che ho raccontato sono tratte da un episodio di cronaca giudiziaria verificatosi a L’Aquila nel 1993-1994, al quale la stampa locale diede il meritato risalto. Si trattò di una ridicola scopiazzatura provinciale di mani pulite e finì, more solito, in burletta. Mi sono limitato a cambiare nome ai protagonisti, dato che mi disgusterebbe conferire fama letteraria a gentucola tanto meschina, e poiché un noir non può finire in burletta, ma deve raccontare drammi autentici, ho aggiunto il sangue alla farsa, la tragedia alla mediocrità».

Il protagonista è il commissario Mauro Alesi. Mi racconta come se l’è inventato? Cosa ha significato, quanto le è costato, quanto ci ha lavorato…
«L’aspetto fisico l’ho preso da un simpatico conoscente, Massimo Di Carlo, un promotore finanziario che vende fondi d’investimento per conto di Berlusconi Silvio. Massimo, da giovane, giocava a pallone per squadrette di serie C. Chissà perché, per anni ho invece creduto che avesse fatto il giocatore di rugby, ecco come mai il commissario Alesi si ritrova un passato sportivo quale terza linea del Civita Rugby. Le qualità psicologiche e caratteriali derivano tutte dal capitano Bellodi e da Philip Marlowe. Alesi è un uomo integerrimo dato che, come sosteneva Raymond Chandler, chi combatte il crimine deve possedere una specchiata moralità, non può essere un ominicchio da due soldi, né un mezzo uomo, né un quaquaraquà. Mentre scrivevo mi sono più volte chiesto per quale congiura del caso un uomo dalle caratteristiche così rare, proveniente per di più da una buonissima famiglia, fosse finito in polizia. Scoprii poi un po’ alla volta, dalla stessa voce del commissario, sebbene non lo dichiarasse in maniera esplicita, che vi era stato costretto dalla cruda necessità economica, giacché l’impresa edile appartenente al padre era andata fallita. Se ciò non fosse avvenuto, Mauro Alesi del posticino statale non avrebbe saputo che farsene».

Come ha elaborato la trama?
«Dall’inizio alla fine. La prego, non rida, non è una battuta».

E chi ride? Vada avanti…
«La mia è una precisa scelta tecnica. Non sono infatti un emulo di Edgar Allan Poe, che suggeriva di elaborare la trama partendo dalla fine e proseguendo a ritroso. Preferisco seguire le orme di Georges Simenon, che quando iniziava a scrivere un libro non sapeva mai come sarebbe andato a finire. E così faccio io. Spio le azioni e le reazioni dei protagonisti, che mi si parano sempre davanti per loro scelta, non perché li invento io, poi li osservo vivere e cerco si scoprire quello che succede. Parola dopo parola, rigo dopo rigo, scena dopo scena».

Mi parli del lavorio che le è stato necessario per trasformare questa trama in una storia.
«Mi dispiace ma non posso. E sa perché? Perché a me non piace un granché partire dalla trama. Sono i personaggi a smuovere il mio interesse. La trama, come l’intendenza, seguirà. Cerco in pratica di riferire vicende cruciali della vita di una o più persone, e lo faccio vivendo insieme a loro, vivendo dentro di loro. Vicende che segnano per sempre il loro e, di rimando, il mio cuore. Nonché il cuore del lettore, mi auguro».

Per il ritmo della narrazione, per i dialoghi, per le atmosfere, come si è regolato?
«Applicando la tecnica. In un testo di narrativa il ritmo è dato dai colpi di scena. Se in un romanzo non succede mai niente il lettore si addormenta. A me piace invece tenerlo ben desto, e ciò si ottiene intensificando via via il numero e il rilievo dei colpi di scena. Per i dialoghi, naturalmente, ho consumato ettolitri ed ettolitri d’olio di gomito, poiché sono la cosa più difficile da scrivere. La più difficile e… la più appagante. Oltre che la più produttiva, perché i dialoghi conferiscono autenticità ai personaggi. Per le atmosfere sono stato molto attento a captare, momento per momento, l’evolversi dell’emotività dei personaggi, dato che le atmosfere rappresentano per me un elemento di natura psicologica. Gente allegra crea un’atmosfera vivace, gente arrabbiata crea un’atmosfera elettrica, e via discorrendo».

Un tema centrale del romanzo è la ricerca della verità: con una citazione a Sciascia…
«Il commissario Mauro Alesi, come successe al capitano Bellodi in “Il giorno della Civetta”, scopre la verità ma giustizia non verrà fatta. In un paese civile questo non potrebbe accadere, se non in casi del tutto sporadici. In Italia è la norma, altrimenti tutti i mafiosi siciliani, calabresi, campani e pugliesi starebbero in galera. Se tali figuri non soggiornano in massa nelle patrie galere vuol dire che la nostra società è malata. Per spiegare le cause di tutto ciò andrebbero affrontati discorsi molto tecnici sulla natura post-fascista, anziché anti-fascista, come una retorica sinistra si sforza da decenni di convincerci, della nostra costituzione. Sta di fatto che il principio fascista della superiorità etica dello stato, che impone ai cittadini la condotta morale cui devono attenersi (articolo quattro, secondo comma), come pure il principio corporativo applicato all’ordinamento giudiziario (articoli centoquattro, centocinque e centosei) equivalgono a un suicidio civile. Suicidio che noi italiani continuiamo da sessant’anni beatamente a perpetrare ai nostri danni. In “Un buon sapore di morte” ho voluto mostrare, senza però avventurarmi in uno sproloquio da comiziante, i tristi effetti umani e sociali causati da istituzioni pubbliche mal congegnate».

Quindi lei riconosce al noir una possibilità di scavo?
«Sì. Diversamente non avrei mai scritto un noir».

Questo scavo, se ho ben capito, dovrebbe condurre a una riflessione del lettore: dove inizia, secondo lei, questa riflessione e dove finisce il lavoro di chi narra?
«Mostrare senza dire, è questo il vincolo del narratore. Deve limitarsi ad emozionare e a far riflettere, ma non può spingersi oltre, scimmiottando gli arruffapopolo. La riflessione, nel lettore, deve scaturire dall’emozione provata, non dagli sproloqui di un comiziante o, peggio, dalla prosa soporifera di un romanzo-saggio, come a suo tempo provò a scriverne, schiavo del proprio incommensurabile dilettantismo, l’aspirante pornografo Pincherle Alberto detto Moravia».

Lei pensa che il romanzo, anche quello di genere, debba denunziare qualcosa che sia socialmente significativo?
«Sì, ne sono fermamente convito. E agisco, cioè scrivo, di conseguenza».

Dunque, lo scrittore ha o non ha un ruolo riguardo al mondo in cui vive?
«Certo che ce l’ha. Un ruolo e una responsabilità, direi, a condizione che non sia ottuso o insensibile. Ma la prima qualità dello scrittore è la sensibilità, e la seconda è l’intelligenza. La terza è il coraggio. È vero, gli scaffali delle librerie rigurgitano di robaccia scritta da vigliacchi asserviti ai partiti, e/o da ottusi che confondono l’attualità con la “Divina Commedia”, e/o da teste di granito che credono alle fandonie che la pubblicità editoriale diffonde sul loro conto. Ma è tutta colpa del pressappochismo che affligge le case editrici. Lo scrittore, quello vero, sa perfettamente che il suo ruolo principale consiste nell’offrire ai lettori d’oggi e di domani una testimonianza delle proprie e delle altrui esperienze di vita».

La scrittura, intesa come atto del narrare, è un’arte o un mestiere artigianale?
«È un mestiere artigianale. L’arte lasciamola agli aspiranti letterati, ossia ai dilettanti. Il libro è un prodotto industriale, destinato a soddisfare i profondi bisogni psicologici del lettore. Quindi scrivere narrativa non è un gioco, né tanto meno una perdita di tempo. È una faccenda terribilmente seria. Chi pensa il contrario è un misero ingenuo che non riesce ancora a capire in quale mondo è nato».

Realtà, attualità, contemporaneità: mi dice come si confronta, e come lo ha fatto nel caso specifico di questo suo libro, con questi concetti?
«Usando i cinque sensi. In altre parole, vivendo e… studiando. E poi leggendo i giornali, guardando i telegiornali e ascoltando i giornali radio. Che io sappia, altri sistemi non esistono».



2 commenti:

  1. Adesso ti conosco un po' di più eh... e mi metti un po' di soggezione.
    Che bella, l'intervista, intendo, davvero.
    ciao
    sinforosa

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Io fare soggezione a te? Ma Sinforosa, dai, questo è semplicemente impossibile. Nell'intervista ho messo a nudo le mie simpatie e antipatie letterarie e, da quel grande spaccone che sono, non mi sono risparmiato in smargiassate. Insomma, diciamo la verità, dovrei vergognarmi. Purtroppo, non ne sono nemmeno capace. La superbia, diceva mio nonno, partiva a cavallo e tornava a piedi. Per non camminare, pigro come sono, faccio l'autostop. Grazie.

      Elimina