venerdì 28 marzo 2014

La bilancia pende sempre da un lato

Presidente del tribunale a Civita negli anni Ottanta era un certo Sergio Raparelli. Aveva i modi e l’aspetto di un buon padre di famiglia, umano e benevolo. Gli avvocati, in massa, lo definivano un giudice dalla spiccata mentalità antigiuridica e di lui non si fidavano. Ma la prima vittima dei tribunali, si sa, è la legge e prendersela con un magistrato che la applica alla carlona è patetico. L’ingiustizia non è mai uguale per tutti.
Tralasciando dunque la sua congenita allergia per i codici, va comunque riconosciuto a Sergio Raparelli uno spirito tollerante e libero da pregiudizi. Ne diede ampia prova quando sua figlia Patrizia incappò in un caso di immacolata concezione. Le nozze riparatrici con il figlio di un barbiere vennero prontamente celebrate, senza che il comprensivo papà dell’incidentata ponesse veti. Il sacro evento provocò il più vivo scalpore, specie nelle teste dei benpensanti, per i quali il matrimonio fra la figlia di un giudice, incinta o meno che fosse, e il figlio di un barbiere appariva scandaloso, se non proprio contro natura. Le consuetudini medievali, a Civita, si osannano tutt’ora con religioso fervore.
Il fortunato genero si chiamava Johnny, o almeno così lo chiamava un mio compagno di scuola. Non lo conoscevo di persona, solo di vista, e devo dire che una certa impressione la faceva. Non bella, per l’esattezza, non bella. Di lui balzava agli occhi la dentatura equina, in eterno esposta al pubblico senza che sorridesse, e l’abitudine di camminare tenendo le braccia incrociate sul petto e le mani infilate alle ascelle. Aveva zigomi alti, da mongolo, faccia e capelli gialli, quest’ultimi dritti e rigidi come le setole di porco in una spazzola per scarpe.
Dopo il matrimonio Johnny si diplomò da geometra e grazie all’alto patronato del suocero divenne il più giovane perito del tribunale che la storia ricordi. I soliti moralisti storceranno il naso, ma il sangue non è acqua e criticare il giudice Raparelli per le sue manovre a sostegno del benessere economico di figlia e nipote è un po’ eccessivo. Primum vivere, dicevano i latini, e la legge, se usata con giudizio, aiuta a vivere eccome.
Non per questo dobbiamo considerare il presidente Raparelli uomo tutto diritto e famiglia. Una grande passione – non meschina, non utilitaristica – lo animava. Amava puntare sui cavalli e passava quindi interi pomeriggi all’agenzia ippica, dove scialacquava beatamente i quattrini.
Insomma, aveva quel piccolo vizio. Ed era l’unico, perché non beveva né fumava.
«Un vizietto costoso», penserete voi.
Certo, sì, costoso.
«E come se lo pagava?».
Ma a questo provvedeva la legge, ovvio. La legge fallimentare, a voler essere precisi, il regio decreto 16 marzo 1942, numero 267.
Al tribunale di Civita, tant’è, giudice delegato di ogni procedura concorsuale – fallimenti, concordati, amministrazioni controllate – era sempre e soltanto l’indefesso Sergio Raparelli, mentre curatore o commissario giudiziale delle medesime procedure figurava sempre e soltanto un tale Giambattista Nardecchia, insegnante all’istituto per ragionieri, nonché iscritto en passant all’albo dei dottori commercialisti.

Giambattista Nardecchia aveva la moglie bella. Donna di straordinaria altezza, insegnava italiano e latino al liceo scientifico. La professoressa Annapaola, questo il suo nome, intratteneva una stretta relazione con Vinicio Rattenni, procuratore capo della repubblica. A inserire Nardecchia nel giro del tribunale fu proprio Rattenni. Ciò spinse le malelingue a congetturare che Annapaola concedesse le proprie grazie anche ad altri magistrati. Ma in verità nessuna ulteriore tresca ebbe mai il conforto di validi indizi.
Le preziosissime corna permisero dunque a Giambattista Nardecchia di arrotondare lo stipendio d’insegnate e a Sergio Raparelli di giocare sui cavalli in tutta tranquillità. Toccava infatti al giudice delegato stabilire i compensi del curatore fallimentare e firmare i mandati di pagamento. A Nardecchia bastava recarsi all’ufficio postale, incassare le somme in contanti e poi dividere con il suo benefattore i frutti degli onesti sudori.
Purtroppo per lui, un bel momento arrivò la signora con la falce e il bengodi svanì. Alla fine degli anni Ottanta, a breve distanza l’uno dall’altro, morirono sia Sergio Raparelli che Vinicio Rattenni. Da allora incarichi dalla procura, o dal tribunale, il Nardecchia non ne ha più ricevuti.
Il nuovo giudice delegato, Roberto Ferraro, si guardò bene dall’affidare a estranei compiti tanto delicati. La nomina di curatrice fallimentare o commissaria giudiziale delle varie procedure da lui dirette preferiva riservarla alla moglie, dottoressa commercialista Giuseppina Zarillo. Dopo qualche anno, com’è come non è, giunse al Consiglio superiore della magistratura un esposto che documentava il simpatico intreccio matrimoniale e professionale dei due piccioncini.
Poiché è meglio un delinquente in servizio che un delinquente disoccupato, il Csm non radiò dai ruoli il giudice Ferraro, né lo trasferì ad altra sede. Il presidente del tribunale che aveva sostituito il defunto Raparelli gli tolse le procedure concorsuali e gli affidò le procedure esecutive, tutto qui.
E continuarono perciò a vivere felici e contenti, come nelle fiabe.



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