Sotto il profilo squisitamente operativo un partito politico è un’organizzazione finalizzata alla conquista e al matenimento del potere. La sua struttura è gerarchica. Il che implica un capoccia con un seguito di reggicoda, sottopancia, tirapiedi, iscritti e simpatizzanti. Ma capo e seguaci sono solo due dei tre elementi fondamentali di un partito. Ogni movimento deve infatti possedere, altrimenti non esisterebbe, anche un terzo elemento immateriale.
Il terzo elemento – la sua anima, per così dire – è la dottrina. Ossia un qualche credo, una qualche convizione suscettibile d’essere propagandata, a fini nobili o ignobili non ha importanza. Importante è che appaia persuasiva e solletichi l’intelletto, il ventre e l’emotività di quanta più gente possibile. Nelle prosaiche democrazie odierne ciò che ho chiamato ‘‘dottrina’’ coincide, al di là della retorica e degli inevitabili squilli di tromba, con il programma di governo.
A tali caratteristiche generali vanno poi aggiunte delle peculiarità che dividono i partiti in due specie, a seconda che siano totalitari o democratici.
Il partito totalitario aspira a impadronirsi dello stato con ogni mezzo, inclusa la violenza. Il partito democratico punta invece a conquistare, per un periodo di tempo limitato dalla legge e attraverso la competizione elettorale, il potere di formare il governo.
Il boss del partito totalitario, giunto al potere, si trasforma in dittatore. In una mano regge lo scettro e nell’altra la frusta, che impiega nel modo più spietato per eliminare gli oppositori. Ogni libertà viene abolita, ogni altro partito viene abolito. Inizia un massiccio lavaggio del cervello per indottrinare la popolazione, utilizzando a tale scopo persino la scuola. Il dittatore usa la frusta anche dentro il suo stesso partito, per difendersi dai compari desiderosi di fargli le scarpe e soffiargli il posto. I dittatori, si sa, non dormono mai sonni tranquilli.
In democrazia suona tutt’altra musica. Certo, pure i partiti democratici si sforzano d’infilare i loro fedeli sostenitori nelle varie burocrazie pubbliche – università, magistratura, ministeri – perché, com’è noto, gli amici piazzati nei posti giusti fanno sempre comodo. Tuttavia, le libertà d’espressione e d’associazione non si possono sopprimere e chi vince le elezioni a fine mandato deve rimettersi in gioco. Si torna al voto e l’elettore, se deluso, ti volta le spalle e in segreto traccia la croce sul simbolo della concorrenza.
All’interno dei partiti, inoltre, vige in linea di massima la regola in base alla quale cavallo che perde si cambia. Il capo d’un partito democratico non può quindi considerarsi né un padre, né un padrone, né un padreterno. Il suo scettro non gli conferisce alcuna potestà assoluta e la frusta è per lui uno strumento poco più che simbolico. Deve quindi mostrarsi sempre pronto ad ascoltare le critiche mossegli dai sodali e ribatterle con arguzia. Se prova a tappare loro la bocca, ogni piccola lesione all’interno della sua fazione si allarga e diventa ben presto una crepa. Risultato? Defezioni, scissioni, pugnalate alla schiena.
I partiti democratici sono insomma costretti ad attuare un pizzico di democrazia anzitutto in casa propria, coniugando il principio gerarchico con la libertà di parola. Se non ci riescono, rischiano di perire o di sopravvivere a stento vagheggiando sogni illusori.
Le recenti vicissitudini di un partito creato da un noto femminista, come anche quelle di un movimento creato da un altrettanto noto grillo sparlante, ci offrono vivide prove che i partiti con un uomo solo al comando trottano pimpanti e si sfiancano presto. Viceversa un partito nato dalla fusione di vecchi rottami comunisti e democristiani, al cui interno le tante voci contrastanti sono libere d’esprimersi senza incorrere in scomuniche, riesce a rinnovare con agilità le gerarchie e a barcamenarsi sulle onde inquiete dei nostri tempi turbinosi.
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