Mio marito è caduto a Mentone. Successe il 22 giugno 1940. Lo seppi i primi di luglio, quando dal ministero della guerra mi arrivò un raccomandata con i ringraziamenti del duce eccetera. Per la verità, il brutto presentimento lo covavo già da qualche giorno. Le operazioni contro la Francia erano finite il 25 giugno e mi sembrava strano che Giacomo, sottotenente di complemento della divisione Cosseria, non riuscisse in qualche modo a farmi avere sue notizie.
A gennaio aveva compiuto venticinque anni. Il tredici gennaio. Nell’autunno del ’38 si era laureato in legge e a marzo dell’anno dopo ci eravamo sposati. Due settimane più tardi era partito per la scuola ufficiali.
Verso la fine di luglio – il ventisette, per l’esattezza – la sua bara arrivò alla stazione Tiburtina. La scaricarono, assieme a quelle di altri quattro ufficiali, da un vagone merci. Un picchetto dei granatieri di Sardegna rendeva gli onori. Un manipolo di gerarchi in uniforme salutò romanamente. Un cappellano militare le benedì.
Ero incinta di quattro mesi. Aspettavo Alberto, un figlio che non avrebbe mai conosciuto il padre.
Uno dei gerarchi tenne un breve discorso. Parlò di gloria, di patria riconoscente, di sacrificio e di vittoria. Alla fine sbatté i tacchi, alzò il braccio e urlò:
«Eia eia eia alalà».
Caricarono le casse di Alberto e degli altri sui carri funebri e il triste corteo si avviò verso il Verano.
Mio figlio Alberto è caduto il 2 luglio 1993, a Mogadiscio, al checkpoint Pasta.
Prima di partire venne a salutarmi, dicendomi che andava in missione in Somalia.
«In Somalia? Ma laggiù c’è la guerra».
Aveva sorriso. «Non preoccuparti, mamma, gli ufficiali superiori muoiono a letto, non in combattimento».
Era colonnello della Folgore. Il grado, però, non lo ha salvato dalle pallottole.
Rimpatriarono la salma in aereo. A Ciampino l’accolsero deferenti il presidente della repubblica, il ministro della difesa, un mucchio di generali. Dissero a mia nuora Anna, a me e a mio nipote Andrea, il figlio unico di Alberto e Anna, belle parole commosse. Poi la caricarono sul carro funebre e via per il Verano.
In camera, in un portaritratti posato sul comò, ho sempre tenuto una foto di Giacomo, scattata appena avuta la nomina a sottotenente, in posa con tanto di sciarpa azzurra e sciabola. Alberto, da bambino, rimaneva a volte intere mezz’ore a fissarla. Spesso mi sono chiesta se il desiderio di diventare militare non gli si fosse infilato a poco a poco in mente rimirando quella foto, dove il papà sorrideva in divisa. Fatto sta che finito il liceo mi disse:
«Non m’iscrivo all’università, presento la domanda per l’accademia di Modena».
«L’accademia? Questa sì che è da ridere».
«Mamma, voglio essere anch’io un ufficiale, così come lo è stato papà».
«Ma tuo padre ha indossato l’uniforme per obbligo, non per scelta. Se in guerra non l’avessero ammazzato avrebbe fatto l’avvocato».
Niente, non volle sentir ragioni.
Mio nipote Andrea, tenente degli alpini, è caduto il 4 marzo 1997, a Gradac, in Bosnia.
Lui è caduto nel vero senso della parola. Non me l’hanno cioè ammazzato in combattimento, come m’ammazzarono il nonno e il padre. La camionetta sulla quale viaggiava s’è rovesciata in un burrone e...
Insomma, è morto così, per un incidente.
Pure lui in Italia l’hanno riportato in aereo, ma ad aspettarlo a Ciampino non sono andata. Ogni tanto vado a trovarli al Verano, dove stanno tutti e tre nella cappella di famiglia.
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