sabato 4 maggio 2013

L'attesa


Fuori, ormai, era sorto il sole. Si sedettero e aspettarono.
La prima mattina li avevano picchiati. Dormivano all’ora di colazione.
Con scrupolo Helmut e Wilhelm avevano evitato di farsi cogliere di nuovo in fallo. Si alzavano appena schiariva, si lavavano, indossavano le loro tenute, rassettavano le brande e alle sei in punto sedevano al tavolo, braccia conserte, in attesa.
Distribuivano la colazione dalle sei alle nove, ogni giorno a un’ora diversa. L’attesa poteva quindi durare anche tre ore. Magari alla cella vicina li sentivi andare alle sei, e a te venivano alle nove. Se non volevi le manganellate dovevi aspettare, braccia conserte, seduto al tavolo.
Quel martedì la porta si aprì quasi subito. Il secondino entrò. Non lo seguiva l’inserviente con le tazze di caffellatte, ma un unterscharführer e due soldati della milizia di sicurezza.
«In piedi», ordinò il secondino.
Ubbidirono.
L’unterscharführer reggeva un foglio battuto a macchina. «Helmut Weiss e Wilhelm Lutze», lesse, «c’è un ordine di trasferimento per voi».
Gli misero i ceppi ai polsi e un anello di ferro alle caviglie. Poi li incatenarono, legandoli l’un l’altro mani e piedi con due catene lunghe circa un metro. Il capo di ogni catena venne assicurato ai ceppi e agli anelli da un lucchetto.
«Andiamo», disse l’unterscharführer.
Uscirono nel corridoio e camminarono in un gran rumore di ferraglia fino al cancello in cima alle scale. Un secondino infilò la chiave nella serratura. Si udirono tre scatti. Il cancello cigolò.
Scesero due rampe e giunsero a pianterreno. Altro cancello. Altro secondino. Altra chiave. Oltre il cancello c’era una porta. Oltre la porta, il cortile.
In ventisette giorni di prigionia non li avevano mai condotti all’aperto. Helmut, avvinto dalla brusca potenza di tutta quella luce, ebbe l’impressione d’essere nudo. La frescura del primo mattino gli alitò sulla pelle. Un’avidità golosa per tutto quanto gli si parava davanti gli divorò gli occhi. Rimase stupefatto da come ogni cosa appariva diversa. Persino il cielo aveva un altro sapore dal cielo che filtrava nella sua cella attraverso le sbarre.
«Guarda», mormorò Wilhelm e con un cenno del capo indicò al compagno il muro alla loro destra.
Il plotone d’esecuzione, già schierato, aspettava i condannati.
«Tranquilli», disse l’unterscharführer, «non è per voi».
Li scortarono alla porta carraia, dov’era parcheggiato un cellulare.
L’unterscharführer aprì lo sportello posteriore. «Su, salite», li sollecitò.
Si arrampicarono a bordo con qualche difficoltà, ostacolati dalle catene, e si sistemarono in fondo al sedile. I soldati montarono appresso a loro. L’unterscharführer sbatté lo sportello e salì nella cabina di guida, a fianco all’autista. Il cellulare si mosse.
Il veicolo superò la carraia e discese il vialetto d’accesso. S’immise nella Schillstrasse, prendendo a destra. All’incrocio con la Bockler, mezzo chilometro dopo, si fermò al semaforo.
«Dove ci porteranno?», chiese Wilhelm.
Helmut, gli occhi incollati al finestrino, intravedeva al di là della grata la facciata a mattoncini del Bayernkolleg, in parte nascosta dagli abeti. «Non lo so».
«Zitti», disse un soldato con voce stracca, «non potete parlare».
Helmut lo guardò. Il militare gli puntava la maschinenpistole.
«Dove ci portate?», chiese Wilhelm all’altro soldato.
Questi si alzò e gli andò vicino. Era un uomo imponente. S’indovinavano, sotto la divisa nera, i muscoli di un gladiatore.
Wilhelm ripeté la domanda: «Dove ci portate? Perché non ce lo dite?».
«Dovete stare zitti», ringhiò il gigante. «Lo capite sì o no?».
«Va bene», disse Wilhelm. «Scusi».
«Bravo», lo lodò il soldato e gli sparò un cazzotto.
La testa di Wilhelm volò all’indietro e con un tonfo urtò il tramezzo di lamiera. Dal naso colò il sangue.
A Helmut l’impulso di protestare gli si strozzò in gola. Il soldato lo minacciò con il pugno.
«Ce n’è anche per te, se fiati».
Intanto il cellulare, venuto il verde, era ripartito svoltando a destra, in direzione del centro. Attraversò il ponte sul Lech e attaccò la salita della Stadtbachstrasse, costeggiando le mura medievali. Alla Frauentor prese a sinistra, verso il duomo. Oltrepassò il duomo e proseguì lungo la Karolinen fino alla Rathausplatz. I fruttivendoli avevano già allestito le bancarelle e le massaie più mattiniere affluivano al mercato. Gli occhi di Helmut corsero dall’una all’altra, nella speranza di scorgere Liselotte. Non la vide. Era comunque un sogno quasi impossibile, perché sua moglie non usciva mai a far la spesa così presto.
Il cellulare imboccò la Maxmilian. Sotto lo sguardo di Helmut sfilarono la farmacia del dottor Kalternbrunner, la tabaccheria della signora Müller, l’albergo Drei Mohren, la banca Fugger. Di seguito alla banca venne la palazzina verde pastello dove al secondo piano c’era il suo appartamento. Adocchiò le finestre. Quella della camera era spalancata. Dentro di sé Helmut pregò, implorò che Liselotte si affacciasse. Il cellulare avanzò veloce e la palazzina verde pastello scomparve.
Alla chiesa di sant’Ulrico il cellulare girò a sinistra e si tuffò giù per la Milchberg. A metà discesa s’imbucò nel cortile del comando provinciale della milizia.
L’unterscharführer aprì lo sportello e i soldati balzarono a terra.
«Forza, fuori», disse l’unterscharführer.
Wilhelm e Helmut scesero, impacciati dalle catene.
Il comando della milizia era un edificio pitturato di grigio. Scorta e prigionieri vi penetrarono per un ingresso secondario. Salirono in ascensore al quarto piano. S’inoltrarono in un corridoio interminabile e, arrivati alla fine, il sottufficiale bussò a una porta.
«Avanti», disse una voce.
L’unterscharführer schiuse la porta. «Trasferimento eseguito», riferì.
«Bene, li faccia attendere».
L’unterscharführer richiuse. Indicò a Wilhelm e a Helmut una panca. «Sedetevi».
L’attesa non fu uno scherzo. Di quando in quando Helmut sbirciava l’orologio e misurò il tempo che rimasero inchiodati sulla panca: due ore e trentacinque minuti. Quella di umiliarti con lunghe attese, rifletté, doveva essere una tecnica studiata ad arte. Come per la colazione in carcere.
I militi, seduti a una panca di fronte, tenevano le maschinenpistole spianate. L’unterscharführer invece se ne stava presso una finestra a guardare il panorama. Ogni tanto nel corridoio rimbombavano i passi di qualche ufficiale che entrava o usciva da una delle porte, calpestando il pavimento con gli stivali lucidi.
Wilhelm era riuscito a tamponare l’emorragia. Aveva frenato il sangue tappandosi il naso con la manica. Il labbro superiore e le narici erano adesso impiastricciate di rosso, come pure la manica della casacca, e alcune gocce gli erano schizzate sul petto.
Helmut avrebbe voluto posargli un braccio intorno alle spalle, ma non poteva. Avrebbe voluto rivolgergli una parola di conforto, ma non osava.
La porta si aprì di colpo e sul corridoio si affacciò un rottenführer. Gettò un’occhiata ai prigionieri. «Sono loro?».
«Sì», rispose l’unterscharführer.
«Fateli entrare».
Entrarono. La stanza era ampia. L’arredamento era costituito da una scrivania di legno scuro e da armadietti di metallo. Accanto alla scrivania stava un tavolinetto con la macchina da scrivere. La poltrona dietro la scrivania era vuota.
Il rottenführer prese posto al tavolinetto. Helmut e Wilhelm vennero fatti sedere davanti alla scrivania, su due sedie affiancate. I soldati e l’unterscharführer restarono in piedi, alle spalle dei detenuti.
Questa volta l’attesa durò meno di un’ora. Cinquantasei minuti, cronometrò Helmut. Le dita del rottenführer li scandirono tamburellando sul tavolinetto.
D’improvviso il graduato scattò sull’attenti. «Ritti», urlò.
Nella stanza era apparso un obersturmführer.
I soldati e l’unterscharführer batterono i tacchi. Wilhelm e Helmut si tirarono su in uno scroscio di catene.
L’ufficiale era giovanissimo. Non dimostrava più di vent’anni. Si tolse il berretto e si accomodò nella sua poltrona.
Disse, rivolto a Helmut e a Wilhelm: «Prego», e con un gesto della mano li invitò a sedere.
Si sfilò i guanti di pelle nera. «Seduto», comandò al rottenführer.
Il rottenführer eseguì fulmineo, da marionetta ben addomesticata.
La faccia di Wilhelm, sporca di sangue, incuriosì l’obersturmführer. «Lei ha avuto un incidente».
«Sì».
L’ufficiale sorrise. «Cose che capitano».
Wilhelm non obiettò nulla.
L’ufficiale trasse un fascicolo da un cassetto e lo sfogliò con metodo, pagina per pagina.
«Chi di voi due è Wilhelm Lutze?».
Wilhelm trasalì. «Sono io».
«Bene. Lei è giornalista, vedo».
«Sì».
«Bene. E lei è Helmut Weiss», disse a Helmut.
«Sì», disse Helmut.
«Giornalista anche lei».
«Sì».
«Bene. Oggi pomeriggio sarete processati».
«Processo?», disse Helmut. «E qual è l’accusa?».
«Non l’immagina?».
«No».
L’obersturmführer sorrise. «Lei conosce l’articolo quattrocentosedici bis del codice penale, vero?».
I muscoli e le ossa di Helmut smisero d’essere muscoli e ossa e divennero una gelatina fredda. Conosceva l’articolo quattrocentosedici bis. E conosceva la pena. Era la prima cosa che t’insegnavano ai corsi di giornalismo.
«Lo conosce?».
«Sì».
L’ufficiale sorrise.
«A… assurdo», balbettò Wilhelm.
«Cosa è assurdo?», gli chiese l’ufficiale.
«L’accusa. Secondo lei noi… io avrei letto o diffuso pubblicazioni proibite?».
«Sì, esatto».
«Ma è ridicolo!».
L’ufficiale sorrise. «Ridicolo? E perché?».
«Perché sono iscritto al partito da ventitré anni. Ventitré. Si rende conto, sì?».
L’ufficiale scosse lievemente il capo, divertito. «E questo cosa c’entra?».
«C’entra eccome. L’anno scorso mi hanno nominato segretario regionale del sindacato giornalisti. Per lei non significa niente?».
L’ufficiale gli piantò addosso uno sguardo celeste così puro da lasciare sgomenti. «Signor Lutze, abbiamo le prove».
«Prove? Quali prove?».
L’obersturmführer sorrise. «Eccole». Tolse dal fascicolo un ciclostilato e lo mostrò reggendolo tra il pollice e l’indice. «Lo riconoscete?».
Wilhelm chinò il capo.
Helmut si mordicchiò un labbro.
«Lo riconoscete?».
«No», mormorò Wilhelm.
«No, eh?».
«No».
«E lei, signor Weiss?».
«No», si affrettò a rispondere Helmut. Non riusciva a spiegarsi come la milizia ne fosse informata.
«Mentite, ma non importa».
Dettò al rottenführer il testo del verbale. Batterlo a macchina fu un’operazione rapidissima. Il testo si componeva di una sola frase: “Gli accusati respingono ogni addebito”. Il rottenführer porse tre copie al superiore.
«Firmate».
Firmarono.
«Conduceteli nella sala delle udienze».
L’unterscharführer batté i tacchi. «Signorsì, obersturmführer».
La sala delle udienze si trovava due piani più sotto. Era un locale vasto quanto una palestra, deserto come una distesa polare. Dalle vetrate fluiva una luce nitida che si spargeva ovunque. Sulla parete in fondo era dipinto un teschio nero e il motto: “Il mio onore si chiama fedeltà”.
I militi rinchiusero Helmut e Wilhelm nella gabbia degli imputati.
Iniziò una nuova attesa.
Helmut non sbirciò l’orologio, nemmeno una volta. Aveva la gola secca, il cuore secco. Fissava il vuoto. Avrebbero potuto tenerlo un secolo in quella gabbia, non se ne sarebbe accorto.
Nell’aula entrò uno sturmführer. I suoi passi risuonarono come colpi di tamburo. Si avvicinò alla gabbia. I soldati e l’unterscharführer batterono i tacchi.
«Sturmführer Ohlendorf», si presentò. Era un giovane bruno, altissimo. «Sono il vostro difensore». E andò a sedersi a un tavolo.
Di lì a poco entrò l’obersturmführer, con il fascicolo in mano. Altri passi decisi. Altro sbattere di tacchi. Pure lui sedette a un tavolo.
Subito dopo nella parete in fondo si aprì una porta. Ne uscì uno sturmbann. «La corte», gridò.
Si misero tutti sull’attenti. Dalla porta comparvero un oberführer e due standartenführer, elegantissimi nelle nere uniformi dal taglio impeccabile. Avevano facce d’acciaio, mascelle d’acciaio, occhi d’acciaio. Sedettero al lungo tavolo loro riservato.
Con sobrie movenze del capo e del braccio l’oberführer consentì agli astanti di rimettersi seduti, e ordinò: «Si dia inizio al dibattimento».
Lo sturmbann spiegò un foglio e lesse: «Procedimento numero duecentoventisette, contro Weiss Helmut e Lutze Wilhelm, imputati dei reati di cui all’articolo quattrocentosedici bis del codice penale».
«L’accusa esponga i capi d’imputazione», ingiunse l’oberführer.
L’obersturmführer si alzò. «L’otto maggio scorso l’ufficio politico di questo comando attuò un’azione di prevenzione. A tutti i redattori del quotidiano “Volks Tageblatt” fu recapitato presso la sede del giornale un plico anonimo contenente una rivista stampata a ciclostile. La rivista, di contenuto letterario e denominata “Fabula”, non recava gli estremi dell’autorizzazione alla stampa rilasciata dal ministero della cultura. Entro le ventiquattr’ore successive tutti i redattori del “Volks Tageblatt”, eccettuati gli imputati, denunciarono il fatto alla polizia, consegnando la copia loro pervenuta. Il giorno nove maggio la signora Liselotte Weiss, consorte dell’imputato Weiss, si recò presso la stazione di polizia di Karlstrasse e consegnò una copia strappata, dichiarando che il marito l’aveva buttata nel secchio delle immondizie dopo aver dedicato un’intera notte a leggerla. Durante l’istruttoria gli imputati, malgrado le prove a loro carico, hanno respinto ogni addebito. Chiedo pertanto, anche in ragione di quest’ultima circostanza, che essi vengano riconosciuti colpevoli dei reati di cui all’articolo quattrocentosedici bis del codice penale e condannati alla pena ivi prevista».
«La parola alla difesa», disse l’oberführer.
Lo sturmführer Ohlendorf si elevò in tutta la sua altezza e dichiarò: «La difesa ritiene che non sussistano elementi a favore degli imputati».
«Bene», disse l’oberführer, «la corte si ritira per deliberare».
«Ritti», strillò lo sturmbann.
I membri della corte scomparvero nella porta in fondo all’aula. Rientrarono dopo cinque minuti.
«La corte», sbraitò lo sturmbann.
Di nuovo tutti sull’attenti.
L’oberführer lesse la sentenza: «Questo tribunale riconosce gli imputati Weiss Helmut e Lutze Wilhelm colpevoli dei reati loro ascritti e li condanna alla pena di morte mediante fucilazione alla schiena. La sentenza verrà eseguita entro le ore otto di domani. L’udienza è tolta».
Li riportarono in carcere.
Vi giunsero mentre distribuivano la cena. Benché a digiuno dal giorno avanti, non toccarono cibo. Si stesero sulle brande.
Calò la notte.
Non dormirono. Ugualmente la notte se ne scappò in fretta.
Schiarì.
Wilhelm si alzò, andò al lavandino e si sciacquò il viso, imitato da Helmut.
«E pensare», proruppe Wilhelm, «che quella roba nemmeno l’ho letta. L’ho stracciata e l’ho gettata nel cestino».
«Erano poesie», gli disse Helmut. «Nient’altro che poesie».
Fuori, ormai, era sorto il sole. Si sedettero e aspettarono.



8 commenti:

  1. Una bella dose di sadico cinismo che ci fa riflettere sulla gestione della libertà di cui oggi godiamo, strapazzata in nome della democrazia e passibile di fare germogliare rigurgiti trascorsi. Diapositive molto eloquenti, prosa realistica che schricchiola un poco sull'impiego frequente della terminologia teutonica.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Mah, caro Corrado, ai rigurgiti ci credo poco. Mi fa più paura la memoria corta. L'ambientazione è chiara: Augusta, dove a metà degli anni Novanta ho diretto per un breve periodo un'impresa di costruzioni. La terminologia teutonica l'ho usata in due modi: i gradi delle SS (milizia di sicurezza) e l'abitudine dei tedeschi, riscontrabile nelle battute del capitano, di usare "gut" (bene) a mo' d'intercalare.

      Elimina
  2. Bella storia, non lontana da ciò che accadrà in Italia presto. Il pdr già dice alla stampa di collaborare...

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Luigi no, ti prego, non essere così pessimista. Nessuno è profeta in patria, s'usa per fortuna dire, e spero proprio di non essere profeta di sventure. Di dittatura ne abbiamo già avuto una che ci basta e ci avanza.

      Elimina
  3. Caro Gabriele, è buono, molto buono. Asciutto, senza ridondanze. Mi piace.
    Per il resto - se ricordi in un tuo post qualcuno si chiedeva se mi piacesse Bukowski - riflettendo sulla libertà, proprio Buk pensava che riguardo alle differenze tra dittatura e democrazia, perlomeno nella prima non abbiamo la rottura di scatole di andare a votare. E non è solo un aforisma buttato lì, una battuta alla Bukowski, per così dire. In realtà apre - come accade sempre quando ci riferiamo a Charles Bukowski - un dibattito infinito sulla democrazia limitata e su quanto detti limiti circuiscano l'essere umano quando questi lo pressano. In sostanza, per certi aspetti, penso che ognuno, anche inconsapevolmente, nel proprio intimo ambisca a un'anarchia multicolore, che ovviamente è un'altra cosa. Ma anche in questo caso, l'essere umano (una grande somma di imperfezioni) preferisce che sia il prossimo a subire la sua e non viceversa, deformandone il concetto ulteriormente. Questo per quanto riguarda se stessi e i propri raggi d'azione.
    Nei rapporti con le istituzioni, invece, pretendiamo, pretendiamo molto. Parliamoci chiaro, si tratta di un rancore ben ricambiato, perlomeno visto quanto queste considerano il popolo elettore. E così finisce stravolto anche il rapporto cittadino - cosa pubblica.
    Nella civiltà odierna, l'alienazione di cui tanto si parla, sta anche (o soprattutto) nel dilaniare concetti e svuotarli di significati infarcendoli di nuovi, più o meno come cambiare il ripieno ai cannelloni.
    Concludo con l'ennesimo aforisma bukowskiano: la politica è come cercare di inculare un gatto.
    E chi ha dei gatti, Gabriele, capisce ben cosa si intende.
    Saluti

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Ti ringrazio, Enrico, per i complimenti e mi dà gioia sapere che il raccontino ti sia piaciuto.
      Ho riletto il tuo commento più e più volte. Esprimi concetti tanto difficili quanto amari. Sarebbe bello illudersi che gli individui - cioè noi, tutti noi - fossero diversi, ma è un'illusione inutile, lo capisco. E sarebbe anche bello illudersi che il potere politico, almeno nei sistemi democratici, fosse diverso da quello che è, ma anche questa è un'altra pia illusione. E' chiaro che a far tempo dal Settecento noi occidentali abbiamo troppo sperato che la politica potesse positivamente determinare i nostri destini. Nel Novecento il risultato di tutta quella eccessiva fiducia illuministica sono stati i campi di concentramento e milioni di morti ammazzati. Accontentiamoci ad ogni modo di poter vivere in un sistema non totalitario, dove ci è per lo meno permesso di parlare. Forse non è molto, ma può darsi che sia il massimo.

      Elimina
  4. Volevo commentare il racconto ma hanno già scritto tutto chi prima di me :). Quindi ti dico solo che mi piace come scrivi. Ciao

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Grazie, Carmen Mary. Ho sempre considerato ciò che scrivo con estrema umiltà. C'è chi sostiene che la perfezione, nella scrittura, non esiste. Un autore non può però pensarla così. E' condannato a non sentirsi mai soddisfatto dei suoi testi e a sforzarsi di scrivere meglio. Vorrei esserne capace e le tue parole mi sono di conforto.

      Elimina