sabato 30 marzo 2013

Miseria e nobiltà del cavalier Berlusconi


E’ entrato ormai nella storia. Ciò dispiacerà ai suoi detrattori, ovverosia a coloro che crepando d’invidia lo chiamano il ‘‘nano’’, e chiaramente dispiacerà anche a lui, perché nella storia si entra quando i giochi sono finiti, per così dire. Ma a mio parere la sua parabola politica s’è incamminata oramai su un malinconico viale del tramonto e desidero perciò raccontare le avventure del noto femminista, come a me piace chiamarlo non senza un pizzico d’ironica ammirazione, osservandole con gli occhi del narratore e non con la bava alla bocca dei cronisti prezzolati.
Sarò spietato, vi avverto, senza per questo negargli la mia lucida simpatia.

La discesa in campo
Nel lontano 1993 il mio maestro all’università, il compianto professor Oscar Nuccio, non riusciva a spiegarsi il ritardo della procura di Milano nell’aggredire Silvio Berlusconi. Mani pulite aveva già cominciato a crocifiggere Bettino Craxi e assalito inoltre i cosiddetti miglioristi, ossia la fazione del partito comunista capitanata da Giorgio Napolitano, rei di aver dato un qualche sostegno al feudo socialista in Lombardia. Insomma, i conti non tornavano, dato che il sodalizio tra Craxi e Berlusconi era arcinoto e in guerra, si sa, gli amici del nemico vanno trucidati insieme al nemico. Sembrava un favoritismo inspiegabile.
La non belligeranza giudiziaria si sarebbe però esaurita allorquando, nel 1994, sua emittenza scendendo in campo rifilava una sonora batosta ai rossi che, crollato il muro di Berlino – forti perciò della propria verginità postcomunista – e distrutto il pentapartito a colpi d’avvisi di garanzia, speravano di conquistare il potere di governo.
Il 22 novembre di quell’anno, come in pari data si leggeva sulla prima pagina del ‘‘Corriere della Sera’’, venne notificato a Silviuccio meneghino un invito a comparire, mentre a Napoli partecipava – somma ironia della sorte – a una conferenza internazionale sulla criminalità promossa dall’Onu.
A quell’iniziale colpetto di tuono seguì un’intera catena di sant’Antonio di procedimenti giudiziari. Tutti conclusi, almeno finora, in fragorosi buchi nell’acqua. Il prestigio dell’italica magistratura non ci ha guadagnato, mentre i pendenti a sinistra – nonché pure alcuni pendenti a destra – si sono rosi il fegato.
Stando a quanto una volta ricordato dal professor Giulio Urbani, Berlusconi era ben consapevole, prima di scendere in campo, che l’indipendente – da chi? – magistratura nostrana gli avrebbe messo i bastoni fra le ruote. Ciò malgrado, non ha desistito.
Mi sarà a questo punto concesso d’esprimere una franca opinione sui motivi che lo hanno indotto a una tale scelta. Non intendo infatti tacere che ha attraversato il Rubicone perché temeva, se non si fosse gettato nella mischia, di perdere le televisioni per mano dei rossi. E in questo io ravviso la sua eticità.
Avete capito bene, ho parlato di eticità, qualcosa che i rimasugli della prima repubblichina fusi nel Pd non saranno mai in grado di comprendere.
Aveva infatti un’alternativa – comoda, facile e sicura – già sperimentata con profitto dai padroni della carta stampata: appaltare una o due reti ai rossi.
Invece, un gesto tanto meschino non l’ha compiuto, dimostrandosi nobile e superbo, ingenuo e testardo. Un italiano sui generis. Un tipo d’uomo che in questo paese manda in bestia le folle di mezzi uomini, le folle di ominicchi e le folle di quaquaraquà.

Il fiasco
Silviuccio meneghino, diciamo la verità, piacicchia. Sfoggia un sorriso accattivante ed è, oltre tutto, un appassionato cultore della cosmesi televisiva e chirurgica. Cerone e trapianti di capelli gli danno un fascino da soubrette o, per meglio spiegarsi, da piazzista. Sa vendere. Il ragazzo sa vendere, non si discute. E se la plebaglia gli tira in faccia oggetti contundenti, sfigurandogli il visetto d’angelo, reagisce con borghese virilità, senza una piega, a dispetto dei vermi che lo aspettano a bocca aperta.
Il prodotto che nel 1994 offrì all’elettorato, se vogliamo proprio dichiararlo con onestà e competenza, risultava di prima qualità. Qualcosa che in Italia mancava addirittura dal giorno 28 ottobre 1922. Vale a dire un partito liberale di massa. Una formazione liberaldemocratica che migliorasse finalmente le patetiche sorti della repubblichina italiana riformando la vetusta e malfatta carta costituzionale.
Sul punto, ahinoi, il suo fiasco si è rivelato completo.
Con il referendum del 2006 il popolo sovrano bocciò infatti le riforme costituzionali predisposte dal suo governo. Le modifiche sancivano la fine del bicameralismo perfetto – allo scopo di accelerare il processo di formazione delle leggi – la riduzione del numero dei parlamentari, il trasferimento di alcune potestà alle regioni e – più importante di tutte – il conferimento di maggiori poteri al primo ministro.
Il presidente del consiglio dei ministri sarebbe diventato, per effetto della riforma, capo del governo e non un semplice ‘‘prius inter pares’’, com’è adesso. Avrebbe avuto anche il potere di sciogliere le camere e la sua investitura sarebbe stata determinata in maniera chiara e univoca dal responso delle urne. In sostanza, si cercava di avvicinare il nostro sistema parlamentare a quello inglese, conferendo al corpo elettore il potere di scegliere il primo ministro. Modifiche tutto sommato apprezzabili, che nessun liberale si sarebbe mai sognato di rifiutare.
La colpa del fiasco ricade però tutta su Silviuccio. Ha ignorato che gran parte degli italiani sono digiuni di qualsivoglia teoria dello stato e solo un manipolo, fra loro, possiede sporadiche nozioni di diritto costituzionale. La gran parte neanche sospetta che la democrazia si basa sul principio di responsabilità. Ossia, chi rompe paga e i cocci sono i suoi e se voti per gli asini che ragliano, al governo avrai asini che ragliano e non purosangue che vincono.
Decenni di regime democristiano, caratterizzato da uno smodato statalismo paternalista, hanno fatto credere alle masse che per vivere tranquilli bisogna cercare e osannare il santo in paradiso, anziché darsi delle buone regole di convivenza. Il che significa, in parole povere, scrivere una buona legge fondamentale, una buona carta costituzionale. Giacché cattive leggi sortiscono di sicuro pessimi effetti, mentre soltanto le buone leggi offrono la possibilità d’avere poteri pubblici efficienti.
Se il Berlusca fosse stato più sensibile a questi spiacevoli dati di fatto, si sarebbe impegnato in una lunga e puntigliosa opera di convincimento, facendo percepire alla maggioranza dei suoi connazionali la necessità e la validità delle riforme. Con una vigorosa campagna d’informazione forse ci sarebbe riuscito. E ho detto informazione, si badi, non propaganda.
Se ne è astenuto. E dunque, ringrazi se stesso.

Il certificato di morte
Dopo quel fiasco Silviuccio meneghino ha smesso di volare alto. ‘‘Se non ci è possibile navigare’’, deve aver pensato, ‘‘cerchiamo almeno di rimanere a galla’’. Si è così attestato sulla linea di minor resistenza, limitandosi a opporsi con facile successo alla voracità fiscale e alla strepitosa inefficienza dei governicchi mortadelleschi, incapaci persino di raccogliere l’immondizia dalle strade di Napoli.
Ma saper governare meglio di Mortadella è un ben misero risultato e chiunque, imbecilli esclusi, ci riuscirebbe senza difficoltà. Per ricevere un poderoso sostegno dall’opinione pubblica bisogna perseguire obiettivi ambiziosi, puntare a orizzonti luminosi. E in Italia, per accendere gli entusiasmi, basterebbe creare uno stato efficiente che non succhi il sangue di molti per garantire i privilegi di pochi.
Si è di conseguenza avvicinata per il cavaliere, fatalmente, l’ora del declino, scandita dal tradimento dei rottami missini confluiti nel suo raggruppamento. Per tamponare la falla ha raccattato a due soldi risibili personaggi provenienti da un sedicente partito dei valori – spirituali, ovvio – e poi, di seguito, si è udito un lugubre rintocco. Nell’autunno del 2011 il suo governo – il Berlusconi quarto – è caduto.
L’evento, in sé, non avrebbe avuto nulla di sconvolgente, se il noto femminista avesse dato ascolto a Giuliano Ferrara, che gli consigliava di andare subito al voto, anziché appoggiare il governicchio montiano. Il Berlusca, al contrario, ha preferito firmare il proprio certificato di morte. Morte politica, beninteso.
Nessuno, al suo posto, avrebbe commesso un errore tanto marchiano. Il suicidio, in politica, non è contemplato. Gli si offriva la possibilità di liberarsi, e liberarci, del ciarpame ideologico del XX secolo, e se l’è lasciata sfuggire.
Se a fine 2011 si fosse votato i liberali avrebbero perso, rimanendo all’opposizione. La vittoria avrebbe arriso ai rottami comunisti e democristiani fusi nel Pd e sarebbe pertanto toccato a loro attuare le politiche economiche procicliche imposteci da Frau Merkel per distruggere il nostro apparato produttivo e peggiorare la situazione della nostra finanza pubblica.
Dall’opposizione Silviuccio meneghino avrebbe potuto giocare come il gatto gioca con il topo, rendendo a tutti nota l’oggettiva perniciosità delle politiche economiche ordinate dai tedeschi e proponendo le soluzioni alternative. Mentre, avendo appoggiato il governicchio montiano, si è addossato le responsabilità di politiche fallimentari insieme ai rimasugli della prima repubblichina, infangando in tal modo il prestigio dei liberali.
Inoltre, presto o tardi, i rottami della prima repubblichina, piegandosi agli ordini impartiti da Berlino, avrebbero registrato un totale tracollo elettorale e ciò avrebbe finalmente permesso all’Italia di dotarsi di una carta costituzionale liberale e creare così uno stato al servizio dei cittadini. I rottami comunisti e democristiani considerano infatti lo stato uno strumento di potere e non una struttura di servizio. Ecco perché è decisivo far di loro democraticamente tabula rasa, se davvero si desidera il progresso del paese.
La guerra è uno sporco mestiere e Silvio Berlusconi ha dimostrato di non esserci tagliato. Ha vinto qualche battaglia, ma ha perduto il conflitto.
Troppo poco.
Vada da Frau Merkel, s’inginocchi come Fracchia e la preghi a mani giunte d’insegnargli come ci si batte e si vince. Distruggendo se necessario l’intera Europa mediterranea, pur di conquistare la supremazia.



2 commenti:

  1. Questo l'hai scritto a marzo e adesso che scriveresti del meneghino? Devi aggiornare il tutto perchè non è finita qui, sta lottando per l'indulto, vuole fare il salmone che risale il fiume o per meglio dire sta aggrappandosi agli specchi e chissà che con la sua testardaggine non ci riesca. Tanto noi cittadini abbiamo un livello intellettivo pari a una nocciolina, e siamo più ingenui di mio nipote che ha 19 mesi, infatti basta raccontarci una favoletta con una bella faccia rasata e sorridente e l'aria convinta che ci crediamo e rivotiamo gli stessi che ci hanno portato a questo punto. Chiarisco che non sono di sinistra, ne di centro, ne di destra, in effetti il partito che mi piacerebbe non esiste ancora, e non credo possa esistere mai.

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    1. No, Carmen, confermo punto per punto. Il noto femminista si è politicamente suicidato nel novembre 2011, quando anziché andare al voto, ha sostenuto il governo Monti, e da allora è politicamente morto. Gli eventi di questi giorni corroborano semplicemente quanto da me sostenuto. E' talmente cadavere che gli si è rivoltato contro persino il suo partito, tanto che non gli è riuscito neanche di far cadere l'attuale governo di cani e gatti. All'alleanza con i cani doveva sottrarsi nell'autunno del 2011, ora è troppo tardi. La guerra è uno sporco mestiere e il noto femminista non è all'altezza di farla. Ha giocato a fare il grande condottiero, come sta facendo grillo sparlante con i suoi, credendo che per guidare un partito basta imitare lo smargiasso romagnolo e dare ordini che riceveranno sempre e comunque un'obbedienza pronta, cieca e assoluta. Ma non è così. In democrazia, se un capo partito non tiene le orecchie aperte per ascoltare i suoi seguaci, specie coloro che lo contraddicono in qualcosa, presto o tardi sarà lui a diventar cieco.
      Il bello della politica è rappresentato dalle tante macchiette che la fanno. Le persone serie e con un po' di amor proprio difficilmente si danno alla politica. La politica è l'arte di chi non è capace di concludere nient'altro. E' il traguardo dei falliti. Cavour, Roosevelt o Churchill sono le celebri eccezioni che confermano la regola.

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