martedì 5 marzo 2013

La pancia e l'invidia


Qualche giorno prima delle ultime elezioni politiche sono stato ospite di mia sorella, nella sua bella casa di Pescara, lambita dalle azzurre acque dell’Adriatico, il mare che amo, e ombreggiata dalla pineta dannunziana.
A pranzo abbiamo inevitabilmente azzardato qualche previsione sull’esito del voto, ormai prossimo. Lei si è detta certa della rimonta di Berlusconi. Io ero scettico. Prevedevo una forte astensione, un dimagrimento consistente dei partiti che avevano appoggiato Monti e un buon successo di Grillo, che quantificavo in un sette, otto per cento di consensi. Presagivo inoltre la vittoria, sia pur di misura, dei rottami comunisti e democristiani fusi nel Pd, che per poter formare un governo – mancando loro la possibilità di godere con sicurezza del premio di maggioranza anche in senato – avrebbero però dovuto appoggiarsi alla stampella del neonato partitucolo montiano, che immaginavo riuscisse a superare d’un pelo la soglia di sbarramento.
Giustificavo i miei pronostici con il fatto che nell’animo di tanta gente, pur dopo quasi un ventennio di alternanza, si fosse radicata la convinzione che tra centro destra e centro sinistra reali differenze non vi fossero, poiché gli eletti dell’uno e dell’altro schieramento pensavano soltanto a difendere, con le unghie e con i denti, i personali privilegi.
Mariangela, così si chiama mia sorella, reagì con verve:
«Ma queste sono considerazioni da intellettuale. Gli italiani votano con la pancia».
Preferii tacerglielo, ma le sue parole un po’ mi dispiacquero. Sebbene sia assolutamente vero che per cinque anni ho insegnato metodologia della scienza economica nella più grande università d’Italia e sebbene sia anche vero che scrivo romanzi, essere preso per intellettuale non mi fa piacere. Sono oramai più di tre lustri che ho interrotto ogni contatto con il mondo accademico. E poi, in secondo luogo, uno scrittore è un artigiano, non un intellettuale.
Oltre tutto, le avevo riferito un’opinione non mia, bensì appresa chiacchierando con persone lontanissime dalle cattedre universitarie e dalle redazioni dei giornali.
«No, Mariangela», obiettai, «noi italiani in gran parte non votiamo con la pancia, votiamo mossi dall’invidia. Dall’invidia sociale».
Il risultato del voto, sorprendendomi, ha in parte smentito le mie previsioni e confesso d’esserne ben lieto.
Ne spiego ora qui le ragioni.
Con la pancia votano i popoli politicamente maturi, i cittadini di democrazie liberali. In una democrazia liberale il rapporto tra cittadini e stato è, in buona sostanza, di natura patrimoniale. Il cittadino elettore paga le tasse e pretende in cambio servizi efficienti. Se deluso, alla scadenza del mandato punisce chi ha ricoperto ruoli di governo e dà il proprio voto ad altri. Lo stato ha insomma il dovere d’essere una struttura di servizio, non un mero strumento di potere.
Motivi tecnici fanno invece della repubblica italiana una democrazia illiberale, riducendo così di molto le potestà degli elettori. La nostra costituzione ha infatti assorbito i tre principi dottrinali del regime precedente: il principio proletario (primo comma dell’articolo uno), il principio della superiorità etica dello stato (secondo comma dell’articolo quattro) e il principio corporativo (Cnel, carattere semipubblico dei sindacati, organizzazione corporativa della magistratura).
Berlusconi, come si ricorderà, agli inizi della sua ‘‘discesa in campo’’ diede a intendere di voler creare un partito liberale di massa, soggetto che nel nostro paese manca dall’ottobre del 1922, e di riformare la carta costituzionale al fine di cedere maggiori poteri al corpo elettorale. Né l’uno né l’altro proposito ha visto, in quasi vent’anni, la luce. E’ riuscito tuttavia a suscitare l’invidia di molti, poiché gli piace la carne fresca ed essendo facoltoso può permettersene in quantità industriali.
I suoi oppositori del Pd, d’altro canto, pur avendo una base elettorale composta, stando a quanto sostengono gli istituti demoscopici, da dipendenti pubblici e pensionati della Cgil, ossia quelli che da giovani sognavano l’avvento di Baffone, hanno tutelato con fervido accanimento gli interessi di tutt’altra classe: il ceto bancario.
Con tali premesse è naturale che si finisca per convincersi che, destra o sinistra, la campana suona sempre a morto. In più, ciliegina sulla torta, sia Berlusconi che il Pd hanno appoggiato il governo Monti. Governo che ha aumentato il debito sovrano dal 120% a 127% del Pil, tanto per migliorare le condizioni della finanza pubblica, e portato il numero dei disoccupati a tre milioni, tanto per arricchire il popolo italiano. Non a caso, alle ultime elezioni per il rinnovo del parlamento, un quarto degli elettori ha disertato le urne, mostrando in tal modo pieno disprezzo per una classe politica che si è oggettivamente fatta in quattro per non meritare niente di più.
Ma quel venticinque per cento preso da Grillo, anziché sette-otto come prevedevo, mi ha spinto a credere che persino noi italiani cominciamo a votare con la pancia. Cominciamo a riflettere sui nostri concreti e legittimi interessi, senza preclusioni ideologiche sbandierate a parole per mascherare in realtà l’invidia, e a punire pacificamente, con il voto, chi ama affamarci.




Nessun commento:

Posta un commento