sabato 30 marzo 2013

Miseria e nobiltà del cavalier Berlusconi


E’ entrato ormai nella storia. Ciò dispiacerà ai suoi detrattori, ovverosia a coloro che crepando d’invidia lo chiamano il ‘‘nano’’, e chiaramente dispiacerà anche a lui, perché nella storia si entra quando i giochi sono finiti, per così dire. Ma a mio parere la sua parabola politica s’è incamminata oramai su un malinconico viale del tramonto e desidero perciò raccontare le avventure del noto femminista, come a me piace chiamarlo non senza un pizzico d’ironica ammirazione, osservandole con gli occhi del narratore e non con la bava alla bocca dei cronisti prezzolati.
Sarò spietato, vi avverto, senza per questo negargli la mia lucida simpatia.

La discesa in campo
Nel lontano 1993 il mio maestro all’università, il compianto professor Oscar Nuccio, non riusciva a spiegarsi il ritardo della procura di Milano nell’aggredire Silvio Berlusconi. Mani pulite aveva già cominciato a crocifiggere Bettino Craxi e assalito inoltre i cosiddetti miglioristi, ossia la fazione del partito comunista capitanata da Giorgio Napolitano, rei di aver dato un qualche sostegno al feudo socialista in Lombardia. Insomma, i conti non tornavano, dato che il sodalizio tra Craxi e Berlusconi era arcinoto e in guerra, si sa, gli amici del nemico vanno trucidati insieme al nemico. Sembrava un favoritismo inspiegabile.
La non belligeranza giudiziaria si sarebbe però esaurita allorquando, nel 1994, sua emittenza scendendo in campo rifilava una sonora batosta ai rossi che, crollato il muro di Berlino – forti perciò della propria verginità postcomunista – e distrutto il pentapartito a colpi d’avvisi di garanzia, speravano di conquistare il potere di governo.
Il 22 novembre di quell’anno, come in pari data si leggeva sulla prima pagina del ‘‘Corriere della Sera’’, venne notificato a Silviuccio meneghino un invito a comparire, mentre a Napoli partecipava – somma ironia della sorte – a una conferenza internazionale sulla criminalità promossa dall’Onu.
A quell’iniziale colpetto di tuono seguì un’intera catena di sant’Antonio di procedimenti giudiziari. Tutti conclusi, almeno finora, in fragorosi buchi nell’acqua. Il prestigio dell’italica magistratura non ci ha guadagnato, mentre i pendenti a sinistra – nonché pure alcuni pendenti a destra – si sono rosi il fegato.
Stando a quanto una volta ricordato dal professor Giulio Urbani, Berlusconi era ben consapevole, prima di scendere in campo, che l’indipendente – da chi? – magistratura nostrana gli avrebbe messo i bastoni fra le ruote. Ciò malgrado, non ha desistito.
Mi sarà a questo punto concesso d’esprimere una franca opinione sui motivi che lo hanno indotto a una tale scelta. Non intendo infatti tacere che ha attraversato il Rubicone perché temeva, se non si fosse gettato nella mischia, di perdere le televisioni per mano dei rossi. E in questo io ravviso la sua eticità.
Avete capito bene, ho parlato di eticità, qualcosa che i rimasugli della prima repubblichina fusi nel Pd non saranno mai in grado di comprendere.
Aveva infatti un’alternativa – comoda, facile e sicura – già sperimentata con profitto dai padroni della carta stampata: appaltare una o due reti ai rossi.
Invece, un gesto tanto meschino non l’ha compiuto, dimostrandosi nobile e superbo, ingenuo e testardo. Un italiano sui generis. Un tipo d’uomo che in questo paese manda in bestia le folle di mezzi uomini, le folle di ominicchi e le folle di quaquaraquà.

Il fiasco
Silviuccio meneghino, diciamo la verità, piacicchia. Sfoggia un sorriso accattivante ed è, oltre tutto, un appassionato cultore della cosmesi televisiva e chirurgica. Cerone e trapianti di capelli gli danno un fascino da soubrette o, per meglio spiegarsi, da piazzista. Sa vendere. Il ragazzo sa vendere, non si discute. E se la plebaglia gli tira in faccia oggetti contundenti, sfigurandogli il visetto d’angelo, reagisce con borghese virilità, senza una piega, a dispetto dei vermi che lo aspettano a bocca aperta.
Il prodotto che nel 1994 offrì all’elettorato, se vogliamo proprio dichiararlo con onestà e competenza, risultava di prima qualità. Qualcosa che in Italia mancava addirittura dal giorno 28 ottobre 1922. Vale a dire un partito liberale di massa. Una formazione liberaldemocratica che migliorasse finalmente le patetiche sorti della repubblichina italiana riformando la vetusta e malfatta carta costituzionale.
Sul punto, ahinoi, il suo fiasco si è rivelato completo.
Con il referendum del 2006 il popolo sovrano bocciò infatti le riforme costituzionali predisposte dal suo governo. Le modifiche sancivano la fine del bicameralismo perfetto – allo scopo di accelerare il processo di formazione delle leggi – la riduzione del numero dei parlamentari, il trasferimento di alcune potestà alle regioni e – più importante di tutte – il conferimento di maggiori poteri al primo ministro.
Il presidente del consiglio dei ministri sarebbe diventato, per effetto della riforma, capo del governo e non un semplice ‘‘prius inter pares’’, com’è adesso. Avrebbe avuto anche il potere di sciogliere le camere e la sua investitura sarebbe stata determinata in maniera chiara e univoca dal responso delle urne. In sostanza, si cercava di avvicinare il nostro sistema parlamentare a quello inglese, conferendo al corpo elettore il potere di scegliere il primo ministro. Modifiche tutto sommato apprezzabili, che nessun liberale si sarebbe mai sognato di rifiutare.
La colpa del fiasco ricade però tutta su Silviuccio. Ha ignorato che gran parte degli italiani sono digiuni di qualsivoglia teoria dello stato e solo un manipolo, fra loro, possiede sporadiche nozioni di diritto costituzionale. La gran parte neanche sospetta che la democrazia si basa sul principio di responsabilità. Ossia, chi rompe paga e i cocci sono i suoi e se voti per gli asini che ragliano, al governo avrai asini che ragliano e non purosangue che vincono.
Decenni di regime democristiano, caratterizzato da uno smodato statalismo paternalista, hanno fatto credere alle masse che per vivere tranquilli bisogna cercare e osannare il santo in paradiso, anziché darsi delle buone regole di convivenza. Il che significa, in parole povere, scrivere una buona legge fondamentale, una buona carta costituzionale. Giacché cattive leggi sortiscono di sicuro pessimi effetti, mentre soltanto le buone leggi offrono la possibilità d’avere poteri pubblici efficienti.
Se il Berlusca fosse stato più sensibile a questi spiacevoli dati di fatto, si sarebbe impegnato in una lunga e puntigliosa opera di convincimento, facendo percepire alla maggioranza dei suoi connazionali la necessità e la validità delle riforme. Con una vigorosa campagna d’informazione forse ci sarebbe riuscito. E ho detto informazione, si badi, non propaganda.
Se ne è astenuto. E dunque, ringrazi se stesso.

Il certificato di morte
Dopo quel fiasco Silviuccio meneghino ha smesso di volare alto. ‘‘Se non ci è possibile navigare’’, deve aver pensato, ‘‘cerchiamo almeno di rimanere a galla’’. Si è così attestato sulla linea di minor resistenza, limitandosi a opporsi con facile successo alla voracità fiscale e alla strepitosa inefficienza dei governicchi mortadelleschi, incapaci persino di raccogliere l’immondizia dalle strade di Napoli.
Ma saper governare meglio di Mortadella è un ben misero risultato e chiunque, imbecilli esclusi, ci riuscirebbe senza difficoltà. Per ricevere un poderoso sostegno dall’opinione pubblica bisogna perseguire obiettivi ambiziosi, puntare a orizzonti luminosi. E in Italia, per accendere gli entusiasmi, basterebbe creare uno stato efficiente che non succhi il sangue di molti per garantire i privilegi di pochi.
Si è di conseguenza avvicinata per il cavaliere, fatalmente, l’ora del declino, scandita dal tradimento dei rottami missini confluiti nel suo raggruppamento. Per tamponare la falla ha raccattato a due soldi risibili personaggi provenienti da un sedicente partito dei valori – spirituali, ovvio – e poi, di seguito, si è udito un lugubre rintocco. Nell’autunno del 2011 il suo governo – il Berlusconi quarto – è caduto.
L’evento, in sé, non avrebbe avuto nulla di sconvolgente, se il noto femminista avesse dato ascolto a Giuliano Ferrara, che gli consigliava di andare subito al voto, anziché appoggiare il governicchio montiano. Il Berlusca, al contrario, ha preferito firmare il proprio certificato di morte. Morte politica, beninteso.
Nessuno, al suo posto, avrebbe commesso un errore tanto marchiano. Il suicidio, in politica, non è contemplato. Gli si offriva la possibilità di liberarsi, e liberarci, del ciarpame ideologico del XX secolo, e se l’è lasciata sfuggire.
Se a fine 2011 si fosse votato i liberali avrebbero perso, rimanendo all’opposizione. La vittoria avrebbe arriso ai rottami comunisti e democristiani fusi nel Pd e sarebbe pertanto toccato a loro attuare le politiche economiche procicliche imposteci da Frau Merkel per distruggere il nostro apparato produttivo e peggiorare la situazione della nostra finanza pubblica.
Dall’opposizione Silviuccio meneghino avrebbe potuto giocare come il gatto gioca con il topo, rendendo a tutti nota l’oggettiva perniciosità delle politiche economiche ordinate dai tedeschi e proponendo le soluzioni alternative. Mentre, avendo appoggiato il governicchio montiano, si è addossato le responsabilità di politiche fallimentari insieme ai rimasugli della prima repubblichina, infangando in tal modo il prestigio dei liberali.
Inoltre, presto o tardi, i rottami della prima repubblichina, piegandosi agli ordini impartiti da Berlino, avrebbero registrato un totale tracollo elettorale e ciò avrebbe finalmente permesso all’Italia di dotarsi di una carta costituzionale liberale e creare così uno stato al servizio dei cittadini. I rottami comunisti e democristiani considerano infatti lo stato uno strumento di potere e non una struttura di servizio. Ecco perché è decisivo far di loro democraticamente tabula rasa, se davvero si desidera il progresso del paese.
La guerra è uno sporco mestiere e Silvio Berlusconi ha dimostrato di non esserci tagliato. Ha vinto qualche battaglia, ma ha perduto il conflitto.
Troppo poco.
Vada da Frau Merkel, s’inginocchi come Fracchia e la preghi a mani giunte d’insegnargli come ci si batte e si vince. Distruggendo se necessario l’intera Europa mediterranea, pur di conquistare la supremazia.



domenica 17 marzo 2013

Con l'amaro in bocca, ridiamo


Cosa mai saranno queste Chiappe del Demiurgo, scritte addirittura con la maiuscola?
Nulla di trascendentale, vi avviso, ma qualcosa, a suo modo, di spirituale. Un simbolo visibile, tangibile e odoroso dello spirito dei nostri tempi.
Ossia la cacca, se mi è consentito usare il meno sgradevole degli eufemismi.
‘‘Le Chiappe del Demiurgo’’, oltre a dare il titolo al romanzo satirico di Corrado S. Magro (la S. sta per Sebastiano), denominano una costruzione marmorea progettata dall’architetto Analeto per conto dell’imprenditore, naturalmente di grido, Chiaculo.
L’edificio ha una forma corrispondente al nome.
Tra le chiappe, come inoltre sappiamo, trovasi lo sfintere, dal quale fuoriescono cacca e sonore flatulenze.
L’idea di costruirlo per installarvi la direzione aziendale, manco a farlo apposta, è venuta a Chiaculo durante una seduta mattutina sulla tazza del gabinetto. Capisce quanto possa essere geniale ricavare dalla cacca una filosofia imprenditoriale di successo, dato che l’intera società ormai vi si sbrodola, nella cacca, e parte lancia in resta per realizzare l’opera, riuscendo tra l’altro ad ottenere unanime ammirazione.
Il romanzo si legge d’un fiato, ma fa letteralmente rimanere senza fiato. Corrado S. Magro, siciliano che ha lavorato a lungo in nord Europa e vive ora in Svizzera, osserva con occhi feroci la nostra Italia e ne denuda gli aspetti grotteschi ovunque si trovino: nel mondo d’impresa, nella sfera politica, nel clero, nonché in quell’immenso carrozzone costoso e improduttivo di nome Unione Europea. Le sue pagine le si accosta quasi d’istinto alla pittura di Otto Dix e George Grosz, artisti che con i loro quadri e disegni tracciarono graffianti e tristi ritratti della Germania anni Venti.
Con prosa rigogliosa che però scorre come acqua di fonte, cioè limpida e fresca, ci racconta le ridicole vicende di personaggi i cui nomi, per esempio, suonano così: presidente del consiglio dei ministri Produsconi, vescovo Affettato, ingegner Chiapputo, signora Scuregiola, professor Di Gerendo, eccetera eccetera.
L’autore, il cui talento affabulatorio è indiscutibile, ha dichiarato d’aver scritto il libro per satireggiare ‘‘quella società votata in esclusiva a conseguire un grottesco successo che si rispecchia nell’egocentrismo e nel profitto come massima di vita e da qualunque parte esso si possa trarre’’. Ma a mio sommesso parere ‘‘Le Chiappe del Demiurgo’’ superano questo obiettivo, perché in verità il romanzo ci costringe a guardarci dentro e ad annusare, sperando che nulla di fecale arrivi ai nostri sensi.
Ridiamo, sì, ma con l’amaro in bocca.



mercoledì 13 marzo 2013

E perbacco, pacta servanda sunt


Le norme fondamentali del diritto internazionale, non è un segreto per nessuno, sono due. La prima stabilisce che i trattati si rispettano finché conviene. La seconda sancisce che noi, all’occorrenza, siamo liberi di non rispettarli, i trattati, ma gli altri no. Dura lex sed lex.
Se qualcuno ritiene che siano, le mie, spiritosaggini di un inguaribile burlone, sbaglia. La repubblica federale tedesca – ripeto, la repubblica federale tedesca, non certo una qualsiasi repubblichina delle banane – le ha di recente applicate, quelle due fondamentali regole del diritto internazionale, con teutonico rigore.
Premetto che sia dal punto di vista morale, come anche sotto l’aspetto squisitamente tecnico, il comportamento dei governanti tedeschi deve essere considerato irreprensibile. Il loro dovere consiste infatti nel tutelare, con mezzi pacifici, gli interessi del proprio popolo. E naturalmente ci riescono perché, a differenza d’altri, sono competenti.
E ora, con il vostro permesso, arrivo al punto.
Nel 2003 la Germania, come anche la Francia, non rispettò i vincoli imposti dal patto di stabilità. Il patto, in vigore dal primo gennaio 1999 e introdotto nella normativa europea su insistenza dei tedeschi nel 1997 con il trattato di Amsterdam, stabiliva che il deficit di bilancio dei paesi dell’eurozona non avrebbe dovuto superare il tre per cento del prodotto interno lordo e il debito pubblico non avrebbe dovuto eccedere il sessanta per cento, sempre del pil.
Si è molto discusso sull’efficacia e sull’opportunità di questi limiti, ma rimestare qui l’argomento poco importa. E’ importante invece ricordare che la procedura di deficit eccessivo a carico di Germania e Francia, con le relative sanzioni da comminare, non venne attuata. Fu in sostanza applicata la prima norma fondamentale del diritto internazionale: i trattati si rispettano solo se fanno comodo.
Nel 2010, scoppiata con il caso della Grecia la crisi dei debiti sovrani, il governo tedesco ha reagito con la massima energia alla spiacevole situazione venutasi a creare, obbligando tutti gli altri a onorare la seconda regola fondamentale: noi no, ma voi i trattati li dovete rispettare.
Immaginare che il governo diretto dall’amabile Angela Merkel operi in tal modo perché animato da un ottuso spirito legalitario equivale a sognare a occhi aperti. Lo ha fatto e continua a farlo perché con il marco non si scherza, anche se per accidenti dovesse chiamarsi euro. E di euro la repubblica federale ne ha uno stringente bisogno, soprattutto per salvare le proprie banche, nella cui pance sono finite montagne di indigeribili titoli spazzatura americani e obbligazioni pubbliche emesse da paesi dell’Europa mediterranea.
Avendo pertanto la Germania, come tutti, un maledetto bisogno di quattrini, ha creduto bene di non lasciarsi sfuggire l’occasione per attirare capitali e remunerarli a tassi d’interesse inferiori al tasso d’inflazione. A tale scopo ha imposto ai paesi in crisi dell’eurozona di attuare politiche economiche procicliche – ossia misure che hanno quale effetto quello di peggiorare le condizioni economiche, non di migliorarle – nella certezza di accrescere i trasferimenti di capitale dai paesi in crisi alla Germania. Evento che, come da giuste previsioni, si è regolarmente verificato.
A questo punto penso sia chiaro che i differenziali di rendimento – per gli intenditori, spread – tra i titoli pubblici tedeschi e quelli dell’Europa mediterranea non nascono per una congiura del destino, ma grazie a una rigida applicazione delle due regole fondamentali del diritto internazionale.
E noi, direte, ce ne stiamo qui buoni buonini a farci tartassare dai nostri governati al fine, magari nobile, di proteggere il benessere del popolo tedesco?
La mia risposta è sì.
L’idea che noialtri siamo in grado di sfuggire alle vicissitudini masochistiche di cui siamo vittime pecca un po’ troppo di fantasia. Sarebbe necessario porre al centro del dibattito politico il problema dell’euro e dei rapporti con la Germania. E non mi pare proprio che ciò stia avvenendo.
Dopo tutto, una fetta cospicua del nostro apparato burocratico, come anche un terzo del corpo elettorale, un’ampia galassia del modo accademico e tanti gazzettieri sono prigionieri d’impulsi illiberali e antiriformisti, che però mascherano con la retorica europeista. Il loro totem è lo status quo.
E con progressisti di tal fatta si va indietro, non avanti.



sabato 9 marzo 2013

Dacci oggi il nostro debito


Pochi di noi se ne saranno accorti, ma stiamo vivendo un’epoca straordinaria. In alcuni paesi d’Europa – i cosiddetti paesi cicala, per l’esattezza – si verifica un fenomeno tanto insolito quanto prodigioso, mai accaduto prima nella storia. I posteri, quando getteranno il loro sguardo beffardo ai nostri miseri anni, si sbellicheranno dalle risa.
Oh bella, direte voi, perché mai dovranno ridere se a noi non rimane che piangere.
Riderete, riderete pure voi, se mi concedete un breve minuto per svelare l’insolita novità che i nostri governanti, del tutto inconsapevoli e quindi senza colpa, sono riusciti a inventarsi per peggiorare le condizioni economiche del settore privato e, nello stesso tempo, aggravare la situazione finanziaria del settore pubblico. Quello, per intenderci, che dovrebbe essere risanato.
Il busillis riguarda il rapporto tra debito pubblico e tasse. Come diceva John Kenneth Galbraith, uno dei più brillanti economisti del XX secolo, il debito pubblico è, specie per i politicanti, un ottimo sostituto delle tasse. La ragione è evidente. Nei sistemi democratici i politicanti non vengono eletti a vita, ma a tempo. Alla scadenza del mandato si torna al voto e sono così costretti a competere di nuovo con altri candidati che desiderano essere eletti al loro posto.
Non appena eletto, ogni politicante è dunque per forza di cose immediatamente condannato a pensare alle prossime elezioni, specie se la sua fazione ha conquistato la maggioranza, cioè il potere di governo. Come con arguzia sottolineava Galbraith, la campagna elettorale inizia il giorno successivo a quello delle elezioni.
I politicanti, contrariamente a quanto affermano i soliti demagoghi dell’antipolitica, non sono affatto degli sprovveduti. La loro cultura socio-economica è anzi vasta e profonda e si compone di due elementi. Primo, nulla fa imbestialire di più gli elettori se non l’aumento delle tasse. Secondo, nulla fa più piacere agli elettori se non un aumento della spesa pubblica, guerre escluse. Chi governa agisce perciò di conseguenza.
Le crescenti richieste rivolte negli ultimi cento anni dai cittadini allo stato – soprattutto in materia di assistenza sanitaria e previdenza sociale – hanno determinato un incremento relativo del settore pubblico rispetto al settore privato (ricordo che un sistema economico è composto dai due settori insieme, non da uno solo, benché le fantasiose teorie economiche neoclassiche ipotizzassero un mondo abitato soltanto da produttori e consumatori e relegassero lo stato nell’inferno dantesco). Il valore dei servizi e dei trasferimenti erogati dallo stato ammonta oggigiono a circa la metà della ricchezza annualmente prodotta, mentre agli inizi del ’900 i bilanci pubblici non superavano il 10-15% del reddito nazionale, anni di guerra esclusi.
Il finanziamento della spesa pubblica ha attirato via via sempre più, nel corso del tempo, l’attenzione dei cittadini e dei governanti. I mezzi attraverso i quali vi si può far fronte sono tre: lo scoperto di tesoreria (volgarmente, stampare moneta), le imposte e il debito pubblico. Lo stampar moneta è sì poco costoso ma praticabile esclusivamente entro limiti ragionevoli, ossia ristretti. Se si esagera si riduce la moneta a carta straccia, come si verificò dopo la prima guerra mondiale nella repubblica di Weimar. Ecco perché tasse e debito l’hanno fatta da padroni.
Le tasse però agli elettori non piacciono, ragion per cui i governanti, per non pagare lo scotto in termini di voti, hanno sempre cercato di finanziare la crescente spesa pubblica gonfiando il debito. Ed è in questo preciso senso che Galbraith definiva il debito pubblico un sostituto delle tasse. Da un paio d’anni, però, nei paesi cicala – tra i quali svetta la repubblichina italiana – sta succedendo il contrario. Le tasse, cioè, sono diventate la stampella del debito pubblico. In altre parole, se vuoi più debito, devi aumentare le tasse. L’uno non sostituisce più le altre.
La qual cosa, tecnicamente parlando, è tanto patologica quanto paradossale. Insomma, da ridere.
Come siamo arrivati a questo assurdo? Ci si chiederà.
Be’, è successo perché i paesi cicala, adottando l’euro, hanno rinunciato alla propria sovranità monetaria e, contemporaneamente, non sono stati in grado d’immaginare le conseguenze. Il trattato che l’ha istituita vieta alla Banca centrale europea di finanziare gli stati con lo scoperto di tesoreria o di acquistare alle aste le obbligazioni pubbliche (può tutt’al più comprarle sul mercato secondario per sostenerne i corsi).
Privarsi della sovranità monetaria significa non poter stampar moneta. Il finanziamento della spesa lo si copre soltanto con le imposte e il debito pubblico, come è avvenuto per circa un lustro e mezzo senza eccessivi problemi. Purtroppo la fiducia dei creditori (i sottoscrittori dei titoli pubblici) nei confronti dei debitori (gli stati cicala) si è ridotta non appena s’è saputo che i governanti greci avevano edulcorato i dati di bilancio. E il giocattolo s’è sfasciato.
Per riacquistare la fiducia dei creditori e dimostrare d’essere solventi i debitori sono adesso costretti a torchiare i cittadini aumentando le imposte. Così operando rivolgono in pratica ai mercati mobiliari un messaggio che grosso modo suona:
«Finché io stato cicala posso torchiare il popolo, tu creditore dormi pure sonni tranquilli. Alla scadenza ti rimborserò il capitale e via via ti pagherò gli interessi salatissimi che pretendi».
Gli effetti di una tale simpatica strategia sono noti. Primo, si mette in ginocchio il settore privato (scendono consumi, risparmi, investimenti e occupazione). Secondo, peggiorano le condizioni della finanza pubblica (alla fine del 2011, quando il governo Monti s’insediò, il debito della repubblichina italiana sfiorava il 120% del Pil; oggi, passato poco più d’un anno, siamo arrivati al 127%). Un capolavoro da premiare con il Nobel.
E’ possibile uscirne? Ci si chiederà.
In linea puramente teorica le soluzioni esistono e sono due.
La prima consiste nel riscrivere il trattato di Maastricht consentendo alla Banca centrale europea di finanziare gli stati attraverso lo scoperto di tesoreria e acquistando le loro obbligazioni alle aste. Ciò, tuttavia, non avverrà mai, poiché i tedeschi temono che una siffatta revisione del trattato provocherebbe la svalutazione dell’euro e un’inflazione alla Weimar.
La seconda soluzione prevede che gli stati cicala si riapproprino della sovranità monetaria sganciandosi dall’euro. I governanti degli stati cicala sono però restii a intraprendere una tale strada, giacché temono la svalutazione delle nuove monete nazionali e un’inflazione alla Weimar.
In sostanza, la sindrome di Weimar, scherzando scherzando, ci sta riducendo alla fame. Consiglio, in mancanza di meglio, di pregare:
«Dacci oggi il nostro debito quotidiano. In nome dell’euro, amen».



martedì 5 marzo 2013

La pancia e l'invidia


Qualche giorno prima delle ultime elezioni politiche sono stato ospite di mia sorella, nella sua bella casa di Pescara, lambita dalle azzurre acque dell’Adriatico, il mare che amo, e ombreggiata dalla pineta dannunziana.
A pranzo abbiamo inevitabilmente azzardato qualche previsione sull’esito del voto, ormai prossimo. Lei si è detta certa della rimonta di Berlusconi. Io ero scettico. Prevedevo una forte astensione, un dimagrimento consistente dei partiti che avevano appoggiato Monti e un buon successo di Grillo, che quantificavo in un sette, otto per cento di consensi. Presagivo inoltre la vittoria, sia pur di misura, dei rottami comunisti e democristiani fusi nel Pd, che per poter formare un governo – mancando loro la possibilità di godere con sicurezza del premio di maggioranza anche in senato – avrebbero però dovuto appoggiarsi alla stampella del neonato partitucolo montiano, che immaginavo riuscisse a superare d’un pelo la soglia di sbarramento.
Giustificavo i miei pronostici con il fatto che nell’animo di tanta gente, pur dopo quasi un ventennio di alternanza, si fosse radicata la convinzione che tra centro destra e centro sinistra reali differenze non vi fossero, poiché gli eletti dell’uno e dell’altro schieramento pensavano soltanto a difendere, con le unghie e con i denti, i personali privilegi.
Mariangela, così si chiama mia sorella, reagì con verve:
«Ma queste sono considerazioni da intellettuale. Gli italiani votano con la pancia».
Preferii tacerglielo, ma le sue parole un po’ mi dispiacquero. Sebbene sia assolutamente vero che per cinque anni ho insegnato metodologia della scienza economica nella più grande università d’Italia e sebbene sia anche vero che scrivo romanzi, essere preso per intellettuale non mi fa piacere. Sono oramai più di tre lustri che ho interrotto ogni contatto con il mondo accademico. E poi, in secondo luogo, uno scrittore è un artigiano, non un intellettuale.
Oltre tutto, le avevo riferito un’opinione non mia, bensì appresa chiacchierando con persone lontanissime dalle cattedre universitarie e dalle redazioni dei giornali.
«No, Mariangela», obiettai, «noi italiani in gran parte non votiamo con la pancia, votiamo mossi dall’invidia. Dall’invidia sociale».
Il risultato del voto, sorprendendomi, ha in parte smentito le mie previsioni e confesso d’esserne ben lieto.
Ne spiego ora qui le ragioni.
Con la pancia votano i popoli politicamente maturi, i cittadini di democrazie liberali. In una democrazia liberale il rapporto tra cittadini e stato è, in buona sostanza, di natura patrimoniale. Il cittadino elettore paga le tasse e pretende in cambio servizi efficienti. Se deluso, alla scadenza del mandato punisce chi ha ricoperto ruoli di governo e dà il proprio voto ad altri. Lo stato ha insomma il dovere d’essere una struttura di servizio, non un mero strumento di potere.
Motivi tecnici fanno invece della repubblica italiana una democrazia illiberale, riducendo così di molto le potestà degli elettori. La nostra costituzione ha infatti assorbito i tre principi dottrinali del regime precedente: il principio proletario (primo comma dell’articolo uno), il principio della superiorità etica dello stato (secondo comma dell’articolo quattro) e il principio corporativo (Cnel, carattere semipubblico dei sindacati, organizzazione corporativa della magistratura).
Berlusconi, come si ricorderà, agli inizi della sua ‘‘discesa in campo’’ diede a intendere di voler creare un partito liberale di massa, soggetto che nel nostro paese manca dall’ottobre del 1922, e di riformare la carta costituzionale al fine di cedere maggiori poteri al corpo elettorale. Né l’uno né l’altro proposito ha visto, in quasi vent’anni, la luce. E’ riuscito tuttavia a suscitare l’invidia di molti, poiché gli piace la carne fresca ed essendo facoltoso può permettersene in quantità industriali.
I suoi oppositori del Pd, d’altro canto, pur avendo una base elettorale composta, stando a quanto sostengono gli istituti demoscopici, da dipendenti pubblici e pensionati della Cgil, ossia quelli che da giovani sognavano l’avvento di Baffone, hanno tutelato con fervido accanimento gli interessi di tutt’altra classe: il ceto bancario.
Con tali premesse è naturale che si finisca per convincersi che, destra o sinistra, la campana suona sempre a morto. In più, ciliegina sulla torta, sia Berlusconi che il Pd hanno appoggiato il governo Monti. Governo che ha aumentato il debito sovrano dal 120% a 127% del Pil, tanto per migliorare le condizioni della finanza pubblica, e portato il numero dei disoccupati a tre milioni, tanto per arricchire il popolo italiano. Non a caso, alle ultime elezioni per il rinnovo del parlamento, un quarto degli elettori ha disertato le urne, mostrando in tal modo pieno disprezzo per una classe politica che si è oggettivamente fatta in quattro per non meritare niente di più.
Ma quel venticinque per cento preso da Grillo, anziché sette-otto come prevedevo, mi ha spinto a credere che persino noi italiani cominciamo a votare con la pancia. Cominciamo a riflettere sui nostri concreti e legittimi interessi, senza preclusioni ideologiche sbandierate a parole per mascherare in realtà l’invidia, e a punire pacificamente, con il voto, chi ama affamarci.




sabato 2 marzo 2013

Storia di Ela


1.
Gli scrittori vanno sempre a caccia di materiale per i loro libri. E’ un vizio che hanno nel sangue e sarebbe in realtà buffo se non l’avessero. Sarei perciò uno spudorato bugiardo se sostenessi d’esserne privo.
Ce l’ho anch’io, non me ne vergogno.
Nell’anno appena trascorso mi è però capitato qualcosa di sconcertante. Ho raccolto un bottino talmente putrido da non essere utilizzabile, se non forse in minima parte.
A maggio decisi di rimbiancare le stanze di casa. Andai perciò a chiedere al giardiniere custode del ‘‘Gabbiano’’, il quartierino residenziale dove abito e così denominato in due miei racconti, se mi aiutava a spostare i mobili.
‘‘Il Gabbiano’’ è un villaggio turistico costruito a ridosso della spiaggia. Tra la statale sedici e il mare, a voler essere pignoli, sette chilometri a nord di San Leonardo. Si riempie durante la stagione estiva mentre gli altri mesi rimane quasi vuoto. Sono in tutto nove villette in stile moresco più un ex albergo, da tempo trasformato in un blocco di mini appartamenti.
San Leonardo è una cittadina rivierasca bagnata dall’Adriatico centro meridionale. Vi ho ambientato alcuni racconti ma se vi venisse l’idea di cercarla sulla carta geografica non la troverete. Ciò nonostante preferisco ambientarci anche le vicende che sto per raccontare, pur se realmente accadute.
Il giardiniere del ‘‘Gabbiano’’ è rumeno e si chiama Gregorio. Possiede una ragguardevole pancia da cirrotico, occhi furbi e porcini, una faccia da finto fesso e spicca per i suoi modi servili – con i condomini ma non con i suoi connazionali, sia chiaro – nonché per le indubbie qualità di lavoratore tenace.
Andai dunque a chiedergli se mi dava una mano a spostare i mobili perché dovevo pittare le pareti di casa e lui disse:
«Faccio venire la ragazza. E’ una brava ragazza. Ha già lavorato per Giosuè».
‘‘Capirai che referenze’’, pensai. E ciò per tre ordini di motivi. I primi riguardavano la ragazza, i secondi riguardavano Giosuè, gli ultimi riguardavano entrambi.
La ragazza m’ero immaginato fosse la moglie o la convivente di Gregorio. Tanto ragazza, inoltre, non mi sembrava. Dimostra infatti una quarantina d’anni. Abitava da un paio di mesi insieme a lui e altri due rumeni nell’appartamentino di proprietà del condominio, cedutogli in comodato al momento dell’assunzione, risalente al 2008. Una coabitazione – una donna e tre uomini ristretti in un alloggio angusto – che suscita fatale tristezza.
Giosuè è da me simpaticamente soprannominato il Bullo di Casacalenda, paese che gli ha dato i natali. Ama vestirsi come un pagliaccio, profumarsi come una puttana, portare al polso orologi da cafone e, giorno e notte, i Rayban sul naso. D’estate va in giro con slip gialli canarino e, ai piedi, sandali dello stesso colore. Esercita la nobile arte dello sfaccendato e gode del massimo disprezzo da parte di tutti i condomini. Nel senso che nessuno lo guarda in faccia. Sta sempre solo come un cane, se si esclude l’anziana madre con la quale da maggio a settembre vive nell’ultima villetta del villaggio, la più a nord.
Una dozzina d’anni or sono riuscì, per un breve periodo, a farsi eleggere dall’assemblea amministratore condominiale. Alla scadenza del mandato, in vista della nuova riunione annuale, inviò com’è d’uso ai condomini il consuntivo della sua gestione. Mi bastò uno sguardo per accorgermi che l’avanzo di cassa del suo predecessore, ben sette milioni e mezzo di lire, erano d’incanto scomparsi dalla contabilità. In altre parole, se li era intascati.
Alle riunioni di condominio non vado mai, quella volta invece sì, malgrado qualcuno mi consigliasse di lasciar perdere.
«Il Bullo», mi dissero «è capace di mandarci i ladri a casa, se gli chiediamo i soldi che ci ha rubato».
Non desistetti. Redassi un circostanziato promemoria, da allegare al verbale, per documentare il furto da lui compiuto, e feci del Bullo di Casacalenda carne di porco, schiacciandolo davanti a tutti come si schiaccia un verme. Fu compito del suo successore scucirgli il maltolto e restituirlo pro quota ai condomini.
E ora torniamo alla ragazza – a proposito, le piace che la chiami Ela, vezzeggiativo di quand’era bambina – e al momento che mi accorsi della sua esistenza.
Fu un giorno di marzo, allorché la notai di sfuggita sulla macchina del Bullo, una Fiat Panda color verde pisellino. Supposi fosse una sua rarissima conoscente, o una parente, e l’avesse accompagnato al villaggio per dar da mangiare ai gatti. D’inverno infatti il Bullo dimora nell’altra casa che ha a San Leonardo.
Dovetti tuttavia ricredermi nei giorni successivi. La rividi varie volte spazzare insieme a Gregorio e agli altri due rumeni i viali del villaggio. Capii così ch’era pure lei un’immigrata, probabilmente moglie o comunque compagna di Gregorio, dato che abitava con lui nell’appartamentino del condominio. Né mi meravigliai più di tanto se l’avevo intravista andarsene a spasso in macchina con il Bullo. Non trovando mai nessuno con il quale scambiare una parola, il Bullo con Gregorio s’intrattiene volentieri. Diciamo anzi che sono amici. Ciò doveva avergli facilitato la conoscenza della donna. Lei magari gli aveva chiesto un passaggio e lui non glielo aveva negato. Oltre tutto il Bullo, divorziato da tempo immemorabile, non disdegna le servette. Non per niente fino a una decina d’anni fa conviveva con la sua donna di servizio. La serva, come diceva Totò, serve.
Via, siamo uomini di mondo.

2.
«Va bene», dissi a Gregorio, «la faccia venire domani pomeriggio, alle tre».
Alle tre e mezzo del nove maggio il campanello squillò. Le aprii, ci salutammo, la feci entrare e per poco non svenni.
Per il tanfo.
«Vuol farsi una doccia, signora? Si faccia una doccia».
«No, no».
«E perché? Le do un accappatoio pulito. E in bagno può benissimo chiudersi a chiave».
«No, no».
Spalancai tutte le finestre e ci mettemmo all’opera.
Alla mia attenzione non sfuggirono le piccole mani arrossate, il viso sciupato dal tempo, quel po’ di pancetta, il seno prosperoso, che cominciò a toccarsi con una frequenza un tantino sospetta.
Il suo sorriso sarebbe stato gaio e gentile, se avesse avuto più denti in bocca. Le mancavano i molari superiori e la carie aveva ridotto a moncherini scheletrici i premolari.
Di statura minuta ma ben proporzionata, gli zigomi alti, il nasino all’insù, gli occhi a mandorla di colore verde cupo, un colore che apprezzi in pieno solo quando vi batte la luce, senza le stimmate della sua povertà sarebbe apparsa graziosa e attraente.
Lavorava di buona lena e ogni tanto con le mani si toccava le mammelle, come se dovesse rimetterle a posto. Un trucchetto che alla lunga trovai seccante.
«Ma perché si tocca sempre lì?».
Sorrise. Sorrise con la bocca senza denti e con gli occhi.
«Perché è piccolo», rispose.
Pettoruta com’è, immagino intendesse che piccolo era il reggiseno. A meno che non abbia cercato di darmi il la con una una battuta maliziosa.
Smise comunque di toccarsi i promontori.
Finimmo di svuotare l’armadio contenente i vestiti di mia madre, che dovevo portare a Pescara, ripiegandoli negli scatoloni di cui mi ero provvisto nei giorni precedenti.
«E’ ora di una pausa», dissi.
Ci sedemmo al tavolo del soggiorno, un tavolo rotondo laccato di bianco. Dalla tasca degli shorts sfilò un pacchetto di Stuyvesant e si portò una sigaretta alle labbra. Le tolsi di mano l’accendino e gliela accesi.
Chiacchierammo e presto passò al tu. Seguitai per un po’ a darle del lei, affinché capisse quanto ci tengo alle buone maniere. Ma poi, per non rischiare la figura dell’antipatico, mi convertii anch’io al tu.
«Chissà quanti amici hai», buttai lì scherzando.
«Solo Gregorio, Giosuè e tu».
Noi due ci si conosceva sì e no da un’ora e mezza, definirci amici suonava esagerato. Ma tenni l’opinione per me. A che pro mortificarla?
Sua madre e la madre di Gregorio, m’informò, erano sorelle.
«Allora tu e Gregorio siete cugini».
«Sì, cugini. Io non parlo bene italiano, però capisco tutto».
«Già».
E aggiunse anche, con evidente fierezza, che la madre era ungherese. Dedussi perciò che proveniva dalla Transilvania. Avrei appurato in seguito che la sua famiglia risiede ad Augustin, un paese di mille e seicento anime della Transilvania orientale.
Non tralasciò neppure, senza alcuna mia sollecitazione, d’esprimere un giudizio sul secondo amico:
«Giosuè è vecchio. Ha cinquantasei anni», chiarì.
«Ah, l’età mia. Io lo chiamo il Bullo di Casacalenda, perché gli piace vestirsi in maniera ridicola. Da ragazzino».
«Be’, è vecchio. Cinquantasei anni li dimostra proprio tutti».
Affermazione quanto mai falsa. Peste e corna si può dire del Bullo, fuorché che sia vecchio. Abbronzatissimo da gennaio a dicembre – non a caso per non perdere la tintarella il mese di febbraio lo passa a Cuba – sfoggia un eccellente stato di conservazione. Sport non ne pratica, vero, ciò malgrado non gli si vede un filo di grasso.
Mi disse di aver lavorato in Spagna – «Diciotto giorni», precisò – e aveva una bambina di dieci anni, rimasta con i nonni.
«Come si chiama?».
«Joana».
Di mariti non parlò. Mi annunciò invece che stava per compiere trentadue anni. La qual cosa mi meravigliò non poco. Se avesse detto quarantadue l’affermazione non mi sarebbe parsa per nulla incredibile. Trentadue, invece, altroché se mi pareva incredibile.
«Sì? E quando?».
«Venerdì».
«Dopodomani, quindi. L’undici».
«Sì. Sono nata l’undici maggio del 1980».
Il suo cellulare attaccò a trillare. Rispose e riconobbi la voce di Gregorio abbaiare a pieni polmoni in rumeno. Fu una conversazione veloce, da lei chiusa con rapidi monosillabi. Raccolse il pacchetto di Stuyvesant e tirò fuori due sigarette che lasciò sul tavolo.
«Torno subito», mi disse e uscì di corsa con il pacchetto in mano.
Gregorio, sapevo, non fumava.
Ela, insomma, del tutto libera di fumare non era. Il privilegio di stabilire la razione non le apparteneva. Succede, d’altronde, se non hai i soldi per comprare le sigarette.
Ma un’altra fu la cosa che più mi diede da pensare mentre aspettavo che tornasse.
«Non voglio andare né sulla strada né lavorare ai night», aveva fra l’altro affermato con veemenza durante la pausa.
Una dichiarazione tanto rischiosa che le sarebbe convenuto tenere per sé. Mi riusciva ora impossibile non sospettare che avesse alle spalle esperienze di strada e di night.
Si era fatta una pessima pubblicità.

3.
Il pomeriggio di giovedì dieci maggio Ela si ripresentò come d’accordo a casa per lavorare. Stavolta, a differenza del giorno prima, l’insopportabile puzza di sudore non si sentiva.
Si era lavata.
Però gli effluvi alcolici che spargeva dalla bocca li sentivo eccome. Sarebbe bastato accendere un cerino per provocare un incendio.
«Ho bevuto un po’ di birra e un po’ di grappa».
‘‘Un po?’’, pensai.
Persino la sua pancetta, a distanza di ventiquattr’ore, sembrava un tantino cresciuta. Ma forse perché indossava adesso una t-shirt più aderente.
Ci mettemmo al lavoro. Il giorno precedente avevamo svuotata dei mobili una camera. L’aiuto che le avevo chiesto all’inizio non era quindi più necessario, bisognava ora cominciare a scartavetrare e stuccare. Si era comunque offerta di aiutarmi anche a pittare e io avevo accettato. Attorno alle sei smettemmo e ci salutammo, rimanendo intesi di proseguire il giorno dopo.
L’indomani, venerdì undici, giorno del suo compleanno, alle tre non venne. Non mi disperai, lavorai da solo.
La sera, verso le sei e mezzo, attaccò a telefonare. Chiamò tre volte. Non risposi. Non avevamo ormai alcuna urgenza di sentirci. Troppo tardi.
Neanche sabato si fece viva. Né provò a telefonare. Domenica tredici maggio, dopo pranzo, chiamò e io risposi, mosso soprattutto dalla curiosità.
‘‘E questa di domenica cosa diavolo vuole?’’, mi domandai.
«Gabi, voglio parlare con te».
«Va bene, parla, il telefono serve per parlare».
«No, no, non al telefono».
«E allora vieni, così parli quanto e come ti pare».
Mi prese alla lettera, in un certo senso. Varcata la mia soglia e ricevuti i miei tardivi auguri di buon compleanno, disse infatti:
«Ieri sera c’è stata una festa».
«Per il tuo compleanno?».
«Sì. Alla casa di Giosuè».
Mi venne da ridere. Era venuta in sostanza a dirmi che aveva passato la sera, e probabilmente anche la notte, con il Bullo di Casacalenda.
«Gli piace la grappa», disse.
‘‘Be’, piace pure a te’’, non potei fare a meno di pensare.
«Certo mi sono divertita, però adesso ho mal di testa».
«Vuoi un’aspirina?».
«No, no».
Non doveva dolerle poi tanto, la testa, se non voleva l’aspirina. Di sicuro le occhiaie le aveva profonde. Ma alla pessima cera si aggiungeva una specie di delusione.
La festa che il Bullo aveva dato in suo onore non l’aveva resa felice.
No, per niente felice. Qualcosa era andato storto.
O magari non era andato storto proprio nulla e quel suo visetto stanco e un po’ triste era tutta una finta. Una balorda tecnica di seduzione che mirava contemporaneamente a ingelosirmi e a incoraggiarmi.
Aveva sì passato la serata con il Bullo, purtroppo però il Bullo non si era mostrato all’altezza e lei, poverina, si vedeva costretta a cercare di meglio.
‘‘Cercare che’’, rimuginai tra me, ‘‘un altro cliente? Scordatelo’’.
Finito il colloquio, la salutai cordialmente e l’accompagnai alla porta.

4.
Passò quasi una settimana prima che ci rivedessimo. Ad aiutarmi a pitturare non tornò, né a me saltò in mente di chiamarla. Le sue poche ore di lavoro gliele avevo pagate, e dunque non c’era ragione.
La mattina di sabato diciannove maggio fu lei a telefonarmi.
«Gabi, oggi pomeriggio vengo da te».
Immaginai le fosse rispuntata la voglia di lavorare e guadagnare qualche soldo.
«Va bene».
Arrivò poco dopo le due e mezzo.
«Ela, come sei elegante».
Indossava un paio di calzoncini bianchi e una maglietta di cotone dello stesso colore, sbracciata e con scritto sulla schiena, a lettere argentate, ‘‘Job’’. A tracolla portava un borsone bianco e nero. I piedi li aveva infilati in scarpe da ginnastica rosse. Infine, pur annusando con insistenza, cattivi odori non si percepivano.
Rise compiaciuta ed entrò.
«Non puoi lavorare vestita così. Devi cambiarti».
«Eh, non lavoriamo».
«No?».
«No, no. Usciamo».
«A quest’ora? Ma è prestissimo. E per andare dove?».
«Ai cinesi. Voglio comprarmi il costume».
«Dai cinesi? Se nemmeno so dove stanno».
«Lo so io. Davanti ai carabinieri».
Conosceva San Leonardo meglio di me, a quanto pareva. O almeno, sapeva meglio di me dove si vende roba a poco prezzo.
«E’ presto, prima magari prendiamo un gelato e poi andiamo da questi cinesi. Tanto, prima delle quattro, quattro e mezzo, non aprono».
Salimmo in macchina e la portai in centro. Se affermassi che l’accontentavo per pura e disinteressata generosità non sarei sincero. Di me, come datore di lavoro, aveva dimostrato di non sapere che farsene. Mi premeva perciò appurare fin dove volesse spingersi. A quale gioco giocava?
E mi sarebbe inoltre piaciuto scoprire la vera natura dei sui rapporti con Gregorio. Nonché la vera natura dei suoi rapporti con il Bullo, considerando in particolare l’ulteriore complicazione dovuta al fatto che Gregorio e il Bullo erano amici.
‘‘Menage à trois?’’, mi domandavo.
Parcheggiai e c’inoltrammo a piedi nei vicoletti del borgo medievale, che si erge su uno sperone incuneato nel mare, dominato dal castello svevo e sorretto da un altissimo muraglione tondeggiante.
Raggiungemmo la piazzetta del Duomo. Trovammo però la gelateria chiusa.
«Forse aprono più tardi», dissi. «Potremmo andare a prendere il gelato da un’altra parte».
«No, no».
Passeggiammo per perder tempo nei freschi vicoli stretti e, a uno slargo che dava sul mare, ci affacciammo a guardare il porto dal parapetto del muraglione.
Suppergiù alle quattro tornammo alla macchina. Misi in moto e mi diressi verso la caserma dei carabinieri. Di fronte, in effetti, un negozio cinese ci stava sul serio. Entrammo ma costumi da bagno femminili non ne avevano. Non ancora. Su un espositore presso il banco tenevano gli occhiali da sole. Ela cominciò a provarseli, rimirandosi davanti allo specchio. Un paio le piacque.
«Ti piacciono?», fece.
Non tanto, a esser sinceri.
«Certo, sì, mi piacciono. E ti stanno pure bene».
«Quanto costano?», chiese alla negoziante.
«Sei euro».
Glieli pagai io. Per una coppa gelato, grosso modo, avrei speso la stessa cifra.
Tornammo al villaggio. Sembrava contenta. Gli occhiali, naturalmente, erano da subito diventati un ornamento indispensabile. Non glieli avresti levati neanche con le tenaglie. Si era quasi arrivati, quando disse:
«Stasera telefono a mia figlia e le dico che mi sono innamorata di un uomo che si chiama come lei».
‘‘Ah’’, pensai, ‘‘è dunque questo il tuo gioco’’.
«Ma scusa, tua figlia non si chiama Joana?».
«Si chiama Joana Gabriela. Gabriela è il secondo nome».
Dentro di me, da principio, risi. Provai presto però una pena infinita. Se sperava di sedurmi con tattiche così puerili, senza neppure vergognarsi di tirare in ballo la figlia, qualcosa, in quella donna, funzionava male. Decisi, a quel punto, di parlar chiaro:
«Ela, scordati che io possa trattarti come si tratta una puttana. Non ti chiederò mai quanto vuoi per venire a letto con me. E togliti dalla testa che tu possa diventare la mia mantenuta».
L’effetto di queste parole, purtroppo, non sarebbe durato a lungo.

5.
Per tre buone settimane Ela si tenne alla larga da me. Poi, un tardo pomeriggio di giugno, mi vide risalire dalla spiaggia e si avvicinò.
«Gabi, per favore, portami a fare la spesa. Gregorio è uscito e io non ho più niente».
«Non puoi aspettare che torni?».
«E se torna tardi, che cucino? Non ho più niente, niente. Solo un po’ di uova».
‘‘Una frittata ci esce’’, stavo per dirle, ma aveva senso indispettirla con una battuta strafottente?
«Va bene, dammi il tempo di vestirmi e andiamo».
Al supermercato comprò pane, cosce di pollo, un cartone di birra e una damigianetta di montepulciano.
«Piace a Gregorio», mi spiegò mettendo il vino nel carrello.
Alla cassa s’incontrò con una sua conoscente. Si scambiarono saluti e abbracci calorosi. Evidentemente non si vedevano da un pezzo. Era un’italiana. Carnagione chiara, occhi chiari, capelli scuri. Trentacinque, quarant’anni d’età. Non proprio brutta ma tutt’altro che piacente. La classica donna che nessun uomo si volta a guardare, nonostante faccia i salti mortali affinché il miracolo avvenga. Aveva comprato tre o quattro barattoli di birra, che stringeva nel braccio ripiegato. Uno le cadde e io glielo raccolsi.
In seguito Ela mi avrebbe detto che si chiamava Sara. Divorziata e con tre figli sulle spalle. Per un certo periodo avevano lavorato insieme in un ristorante di Vasto, benché Sara abitasse a San Leonardo. Il ristorante aveva chiuso i battenti e loro due erano rimaste a spasso.
‘‘Un ristorante?’’, mi ero chiesto. ‘‘Notturno?’’.
A colpirmi fu però una raccomandazione che l’italiana, quando di lì a breve si salutarono, rivolse alla rumena:
«E comportati bene».
«Sì, sì».
Ciò lasciava supporre che Ela fosse stata licenziata perché non si era comportata bene.
Caricammo gli acquisti nel portabagagli. Accanto al supermercato c’era un bar.
«Vogliamo prendere qualcosa al bar?», proposi.
Non rifiutò. Ci sedemmo a uno dei tavolinetti all’aperto, riparati da un tendone blu, e aspettammo che ci servissero. Venne la cameriera e per me ordinai una Coca Cola. Ela m’imitò.
Iniziammo a sorseggiare la bibita. Lei aveva anche acceso una Stuyvesant. Io, tra un sorsetto e l’altro, sgranocchiavo le patatine fritte.
«Giosuè mi ha fatto pulire tutta la casa. Tutta, tutta gliel’ho pulita. Ci ho messo tre giorni e mi ha dato solo quindici euro».
«Quindici, eh? Generoso», commentai.
«Quindici euro, per tre giorni di lavoro. Che ci compri con quindici euro? Niente».
«Sì, poco e niente, in effetti».
«Prima no, mi pagava bene, ma adesso... E poi è così vecchio... Così vecchio...».
«Be’, tu mi hai detto che gli piace bere. E tra alcol e cocaina», azzardai, «è difficile mantenersi giovani».
«Eh», fece lei, «tra alcol e cocaina...».
Oh cielo, mi aveva implicitamente informato che il Bullo di Casacalenda è un cocainomane. Faceva sniffare la polverina bianca pure a lei? Inevitabile, a quel punto, non domandarselo.
Mah, che squallore.

6.
La mattina di lunedì diciotto giugno, tornando da Pescara, dove avevo trascorso il fine settimana, mi fermo all’ingresso del villaggio per dare un’occhiata alla cassetta delle lettere. Scendo dalla macchina e scorgo Gregorio uscire dal suo alloggio e dirigersi di buon passo verso di me.
«Signor Gabriele, a Mihaela è morta la madre».
«O mio Dio, quando?».
«Ieri. I parenti l’hanno chiamata ieri sera alle nove e mezzo dalla Romania e...».
«... e le hanno dato triste la notizia».
«Sì».
«Ed è successo così, all’improvviso?».
«Sì, all’improvviso, non era malata. Un mistero».
«Mi dispiace, mi dispiace davvero tanto. Non c’è dolore più grande che perdere i propri cari. E guardi, parlo per esperienza diretta».
«Ha pianto tutta la notte e ha fumato due pacchetti di sigarette».
«Me l’immagino. Oltre tutto lei era così fiera della madre. ‘‘Mia madre è ungherese’’, diceva. Mi chiedo come farà adesso con la bambina, senza più la nonna che l’accudisce. Per il nonno provvedere da solo alla bambina sarà dura».
«Be’, no, al paese ci stanno la sorella e il fratello di Mihaela. Hanno pure loro figli più o meno dell’età di Joana, e daranno una mano».
«Ela suppongo sia già partita per i funerali».
«Sì, è andata a Roma a prendere l’aereo».
Rincasai, accesi il cellulare e la chiamai. Avrei potuto negarle in quella circostanza una parola di conforto?
No, non avrei potuto.
Sarebbe partita l’indomani, mi disse. La sua carta d’identità era scaduta e per imbarcarsi sull’aereo doveva prima ottenere un foglio di via rilasciato dal consolato rumeno. I guai, come si sa, vengono sempre a frotte.
Una decina di giorni più tardi mi telefonò da Augustin.
«Gabi, torno giovedì prossimo, in pullman. Mi vieni a riprendere tu alla stazione di San Leonardo?».
Mancava esattamente una settimana.
«Va bene. Tu poi fammi sapere a che ora arrivi e io verrò a prenderti».
Quella non fu la sua unica telefonata dalla Romania. Nei giorni successivi mi chiamò anzi più volte. In un’occasione esordì con:
«Gabi, sto dove sta il maiale».
«Ah, nella stalla».
«Ci sono anche le galline. Senti?».
E ascoltando il coccodè delle galline mi figurai l’ambiente contadino del paesino dov’era nata. Il suo mondo, le sue origini rurali.
Mi passava al telefono persino Joana Gabriela. Alla figlia aveva infatti insegnato a pronunciare in italiano:
«Buona serata, Gabi».
«Buona serata, Joana».
In Italia tuttavia non tornò giovedì cinque luglio, come programmato all’inizio. Rinviò prima di un giorno, e dopo di due. Sabato sette luglio non mi fu però possibile andare a riprenderla alla fermata delle corriere. Proprio la mattina di quel sabato l’insorgere di un impegno inatteso mi costrinse a lasciare San Leonardo per una settimana. Glielo comunicai strada facendo mentre raggiungevo Roma.
«Non fa niente», disse.
Per tutta quella settimana tenni il telefonino spento, volutamente. Quando per brevi momenti lo accendevo trovavo le notifiche delle sue chiamate, i suoi sms, i messaggi vocali da lei registrati nella segreteria telefonica. ‘‘Chiamami, chiamami’’, quasi implorava. Ma la mia decisione era presa. L’amara medicina avrebbe curato le sue velleità.
Rientrai a San Leonardo il quattordici luglio e per un paio di giorni non la vidi. Il lunedì, risalendo dalla spiaggia intorno all’ora di pranzo, godutami l’irrinunciabile nuotatina quotidiana, percorrevo il vialetto che fiancheggia il mio giardino e il rumore del motocarro Ape Piaggio di Gregorio attirò la mia attenzione. E’ il modello più piccolo, quello da cinquanta centimetri cubici di cilindrata, e fa un fracasso del diavolo. Arrancava sul dosso della statale sedici che s’innalza parallelo di faccia a casa mia. Ela viaggiava sul cassone e si sbracciava per salutarmi. Le risposi d’impeto, agitando anch’io il braccio, e provai una pena indicibile nel vederla sul cassone di quel trabiccolo color carta da zucchero.
Sul cassone, come una cosa, non come una persona.
La sera stessa cominciò a inviarmi messaggini romantici. Replicai in maniera tutt’altro che galante. Così, per esempio: ‘‘Ela, io non sono il tuo uomo’’. E per rintuzzare la sua insistenza mi spinsi fino al punto d’esprimermi nel modo più crudo: ‘‘Ela, io non sono l’uomo per te, perché ho un carattere duro. Accontentati di chi si veste come un pagliaccio, si profuma come una puttana e porta al polso orologi da cafone’’.
Al che rispose: ‘‘Ma il Bullo – eh, sì, aveva cominciato pure lei a chiamarlo Bullo – non fa l’amore con le donne. E quindi...’’.
Scoppiai a ridere.
‘‘Ma tu guarda questa’’, mi dissi, ‘‘quante se ne inventa per accalappiare un povero scapolo’’.

7.
Ai primi di agosto finii di ripittare le pareti di casa, feci perciò venire Ela ad aiutarmi a pulire. Non la chiamai direttamente, rivolsi la richiesta a Gregorio, dato che il capoccia della combriccola rumena del villaggio ‘‘Il Gabbiano’’ era lui.
La trattai con misurata cortesia. Fui insomma estremamente compito. Non proprio freddo ma nemmeno caloroso, ecco. Un datore di lavoro molto, molto a modo. Pignolo quanto basta, esigente quanto basta, alla mano quanto basta. Ci sbrigammo in due mezze mattinate, dopo di che, per giorni interi, non la rividi.
Ah, dimenticavo, la pancia le era cresciuta. Le larghe camicie che indossava non riuscivano a nascondere la realtà.
Verso la fine del mese, un pomeriggio, dovendo uscire per fare la spesa, scesi in garage. Davanti alla saracinesca Ela e Gregorio ramazzavano il viale asfaltato. Li salutai.
«Signor Gabriele, vuol venire a pesca con noi?», Gregorio mi chiese.
«A pesca? In riva al mare?».
«No, no in riva al mare. In un lago. Tra un po’ andiamo».
«In macchina?».
«Sì, con la macchina di un amico mio».
«Io veramente dovrei andare a fare la spesa». Gli occhi, non volendo, mi caddero sulla pancia di Ela. Non che sperassi di appurare chi sa che cosa, ma l’evidente ingrossamento stuzzicava la mia curiosità. «E va bene, la spesa la farò domattina. Quando si parte?».
«Tra mezz’ora. L’aspettiamo a casa, d’accordo?».
Una mezz’oretta più tardi raggiunsi il piccolo appartamento di proprietà del condominio situato nell’ex albergo. Non vi avevo mai messo piede. La porta d’ingresso era spalancata.
«Permesso?».
«Avanti», mi rispose pronta la voce di Gregorio.
Dalla soglia si accedeva in un angusto disimpegno che aveva una porta per lato. Quella dirimpetto all’entrata e quella a destra erano chiuse. Quella a sinistra, aperta, immetteva nel soggiorno. Qui Gregorio e un altro uomo mai visto prima sedevano spalla a spalla su un divanetto troppo piccolo per le loro stazze, ciascuno con un bicchiere in mano. Lo sconosciuto somigliava all’omino Michelin, tanto era cicciotto. Ela sedeva accanto alla porta, con la schiena alla parete.
«Una grappa, signor Gabriele?», Gregorio mi offrì.
I due, dunque, per affrontare al meglio le immani fatiche della pesca sportiva stavano trincando grappa.
«Grazie, no».
L’omino Michelin si alzò, non senza sforzo, e mi strinse la mano, presentandosi con il nome di Ovidio. Mancavano gli altri due rumeni, quelli che lì abitavano insieme a Gregorio e a Ela. O continuavano a lavorare nel villaggio, oppure la pesca non era il loro sport preferito.
Gettai uno sguardo intorno. La mobilia sembrava raccattata in oscure soffitte dopo decenni d’abbandono. Delle tre o quattro sedie non ve ne erano due uguali. Una era impagliata, un’altra era di formica marrone, un’altra ancora di plastica bianca. Sul pavimento, in mattonelle bordò misura quindici per quindici, la scopa e lo straccio non venivano passati dai tempi di Noè.
Davanti al divanetto stava un tavolino rotondo. Accostato alla parete dov’era seduta Ela stava un altro tavolino, ma rettangolare. A colpirmi in maniera sorprendente fu, nell’angolo in fondo, il televisore. Era un modello antidiluviano, d’accordo, ma di grandezza smisurata. Cinquanta, sessanta pollici? Un Polifemo, lo definirei, anzi un autentico King Kong del tubo catodico.
Entrò dal balcone un gattino metà bianco e metà tigrato e mi si strusciò alle gambe. Mi chinai e lo carezzai.
«Oh, ma che bel micio»
«E’ di Mihaela», intervenne Gregorio. «Si chiama Suso».
«Suso?».
«Sì, Suso. Quand’era più piccolo si chiamava Susi. Ma adesso che è cresciuto ci siamo accorti che non è femmina, è maschio».
Ela, sottraendolo alle mie carezze, lo prese in braccio, quasi ne fosse gelosa.
Gregorio scolò l’ultimo sorso di grappa rimasta nel bicchiere, che posò vuoto sul tavolino rotondo, e si tirò su dal divano. Pensavo fosse giunta l’ora d’andare. E invece no, desiderava farmi visitare tutto il quartino, così potevo rendermi conto fino a che punto fosse bravo a tenerlo in maniera impeccabile.
«I mobili sono suoi?».
«E’ tutta roba mia. Quando sono venuto non c’era niente».
Il soffitto del cucinino, sopra la finestra, era nero di muffa. Più al centro era caduto l’intonaco, lasciando a nudo i travetti di laterizi.
«Ma qua ci piove».
«Eh, sì, all’amministratore gliel’ho già detto. Bisognerà mettere a posto».
Sui pensili erano accatastate pentole e padelle. Pile di piatti, bicchieri e altre pentole stavano pure su un tavolo di fianco al lavello.
Riattraversammo il soggiorno. Mi aprì una porta del disimpegno. Era il bagno. La scarsa luce entrava da una finestrella trenta per quaranta, a vasistas e con il vetro opaco. La tazza non aveva il coperchio e la ruggine stava divorando la lavatrice.
Richiuse la porta e aprì l’altra.
«Questa è la camera di Mihaela».
Sembrava copiata di sana pianta dal set di un film ambientato in un bordello. Pareti rosa confetto e letto matrimoniale dalle spalliere d’ottone. Dalla mantovana pendevano tende bianche a pois celesti. Non mancava nemmeno, nell’angolo opposto alla porta, una poltrona imbottita in vinilpelle color crema, con un tappeto steso ai piedi. Sotto la finestra e lungo la parete di fronte al letto erano allineate scansie rigurgitanti di pupazzi e pupazzetti.
I guanciali, entrambi non sprimacciati e visibili perché i bordi della sovraccoperta cresimi e del lenzuolo aragosta erano stati rimboccati, fornivano senz’ombra di dubbio la prova che in quel letto non dormiva una persona sola.
«Bella, eh?».
‘‘Da rimanerci secco’’, pensai.
«Sì, molto».
Concluso il tour della reggia, finalmente si partì. Caricarono canne e borse nel portabagagli della Ford giardinetta di Ovidio, blu e con targa rumena. Suso, il gattino, seguì la padroncina, accovacciandosi tra me e lei sul sedile di dietro.
Ovidio uscì sulla statale sedici, prendendo a sinistra. Un paio di chilometri più giù girò a destra nel sottopassaggio che trafora la massicciata della ferrovia e s’inerpicò su una stradina interpoderale, molto stretta ma con il manto d’asfalto, che risaliva la collina. Sul crinale incrociò una strada migliore, sulla quale svoltò a destra. Ne percorremmo qualche centinaio di metri per poi voltare a sinistra in una stradina ghiaiata. Si avanzò per un breve tratto e nei pressi di una casa colonica Ovidio fermò la Ford sotto l’ombra di un olmo.
Smontammo.
In basso, alla base del versante occidentale della collina, il laghetto rifletteva i raggi del sole calante. Era un invaso artificiale, realizzato probabilmente negli anni Sessanta a scopi irrigui, quattro o cinquecento metri di lunghezza e trecento di larghezza, chiuso a sud da una diga di cemento armato e con le sponde cinte da canneti.
I pescatori presero dal bagagliaio dell’auto la loro attrezzatura. Cominciammo a scendere costeggiando una vigna. Suso, il gattino, seguiva Ela, che appesantita dalla pancia e da un borsone si muoveva cauta. Attraversammo un campo di girasoli e fummo al lago.
Ovidio aveva una canna da pesca nuovissima e super tecnologica, in fibra di carbonio. Gregorio ne aveva una così e così, forse ereditata dal padre. Quella di Ela era invece ereditata di sicuro dal nonno, vecchia e malandata.
Attraverso un varco nel canneto raggiungemmo la riva. Gli uomini si appollaiarono su dei massi. Ela no, rimase in piedi. Infilarono i vermi negli ami e lanciarono le lenze in acqua. Ela, prima d’infilarli all’amo, li passava nella farina di mais.
In circa un’ora e mezza di languido sport, con il sole che a ponente si abbassava e c’inondava di luce e di calore, all’amo di Ovidio abboccarono tre pesci, a quello di Gregorio due. Ela non pescò nulla.
Non saprei dire che pesci fossero. Di certo non erano trote. Le trote le conosco bene, perché mi piace mangiarle. Erano piccoli, lunghi non più di quindici centimetri, dal profilo tozzo e spessi sì e no un centimetro e mezzo.
Al tramonto tornammo in macchina. Si partì e Ela disse qualcosa a Ovidio. Capii quel che gli aveva detto quando la Ford, anziché ridiscendere verso ‘‘Il Gabbiano’’, proseguì in direzione di San Leonardo. Mi stavano portando al supermercato per consentirmi così di far la spesa quella sera stessa, senza che il mattino appresso dovessi più pensarci.
Al parcheggio del supermercato scendemmo tutti. O meglio, quasi tutti. Suso no, rimase in macchina.
Presi il carrello.
Ela restò con me, mentre gli uomini ci precedettero puntando dritto agli scaffali degli alcolici. Davanti al banco del pane s’imbatté in Sara, la sua amica italiana incontrata un paio di mesi addietro proprio in quel supermercato.
Si salutarono e l’italiana con un sorriso radioso le chiese:
«Sei in dolce attesa?».
«No», rispose Ela a voce smorta.
Al che l’amica mi lanciò uno sguardo che avrebbe incenerito un toro. Il tacito significato di quell’occhiataccia era lampante: ‘‘Brutto porco, adesso la fai pure abortire’’.
Non avevo mai sfiorato Ela neanche con un dito. Ma sarebbe servito spiegarlo a quella donna? Tra me e me, ci risi su.
E comunque quel pancione, i primi di settembre, si sgonfiò come d’incanto.

8.
Il primo sabato di ottobre, all’imbrunire, terminata la giornata di lavoro e riposti gli attrezzi nella rimessa condominiale, Gregorio se ne tornava nel suo alloggio e passò sotto la mia terrazza, dov’ero seduto a leggere.
Com’è naturale, ci scambiammo la buona sera. Lui inoltre mi chiese:
«Signor Gabriele, le piace la zuppa di pesce?».
«Veramente, non l’ho mai mangiata».
«E allora domani venga a pranzo da noi, cuciniamo zuppa di pesce. Ci saranno anche degli amici».
Una scusa plausibile e al tempo stesso poco offensiva per rifiutare l’invito non riuscii a trovarla. Gli rivolsi invece una domanda tanto banale quanto ingenua:
«Ma è buona?».
«Buonissima».
Difficile aspettarsi una risposta diversa.
«D’accordo, grazie, verrò ad assaggiarla. Buona sera, Gregorio».
«Buona sera».
Domenica sette ottobre, intorno all’una, mi presentai nell’appartamentino dei rumeni.
I tre uomini di casa, ossia Gregorio, Emilio e Miha, nonché il micio Suso, si trovavano ovviamente in sede. Gli invitati erano una coppia di coniugi rumeni con la loro bambina e un imprenditore edile di San Leonardo con la sua giovane amica rumena.
Questa ragazza si chiamava Valentina e poteva al massimo avere venticinque anni. Mi disse che stava in Italia da tre mesi.
«Un mese da sola e due con Ernesto», puntualizzò.
Ernesto, l’arzillo imprenditore di mezz’età con baffi e pizzetto grigi, io lo conoscevo bene. L’anno precedente mi aveva riparato il tetto.
Gli sposi si chiamavano Fëdor e Dana, la loro figlioletta di tre anni si chiamava Stefania. Grassa Dana, laureata in lingue, magrissimo Fëdor, muratore. Stefania, bionda e vivace.
Con Ela, nel cucinino, ci stava il Bullo di Casacalenda. Ovvero, la mente e il braccio. Nel senso che le istruzioni le dava il Bullo e Ela rimescolava con un cucchiaione di legno la zuppa che cuoceva in un gigantesco tegame di terracotta. Almeno sessanta centimetri di diametro, giuro.
Il Bullo, da grande esperto culinario, si profuse in spiegazioni. Mi parve un fatto abbastanza normale. I divorziati diventano tutti, per forza o per buona voglia, dei grandi chef. Mentre noi scapoli, si sa, riusciamo a malapena a cucinare un uovo sodo. Per noi zitelloni è più dignitoso morir di fame che imparare a cucinare. Noblesse oblige, come suol dirsi.
A farla breve, nella broda ribollivano scorfani, triglie, cozze, gamberi, calamari, pomodorini mignon, più annessi e connessi vari. Per gli occhi, un gran brutto spettacolo, vi assicuro. E per il naso... be’, tralasciamo.
Ela, notai, sembrava sulle spine. E non mi riferisco a quelle dei pesci. Altre ragioni provocavano il suo imbarazzo. Non potermi nascondere la tangibile familiarità con il Bullo, per esempio, rappresentava senza meno un bel problema, per lei.
Al Bullo brillavano i Rayban – di lui nessuno potrà infatti mai dire d’avergli visto brillare gli occhi, poiché li occulta notte e giorno dietro le lenti affumicate – e fremevano le orecchie a sventola. I motivi di tanta eccitazione, mi sarei presto accorto, non derivavano dalla prosopopea del gran gourmet di cui aveva appena fatto sfoggio. Era in vena di portentose maldicenze e sentiva già l’acquolina in bocca.
Dal cucinino, lui e io, ci spostammo al balcone del soggiorno. A un’anta della portafinestra mancavano i vetri e larghi schizzi di un qualche liquido, birra o vino, macchiavano una parete della stanza. Indizi inconfutabili di recenti risse. A fine agosto, quando ero entrato lì per la prima volta, quei segni non apparivano.
«Gregorio e la ragazza», mi sussurrò il Bullo, «non sono cugini».
Reagii a quel segreto di pulcinella con il silenzio che meritava. Il Bullo, sempre con la stessa voce da cospiratore, non si diede per vinto e tirò fuori il carico da undici:
«La ragazza, fino all’inizio di quest’anno, ha lavorato in un night di Vasto. Lei e le colleghe abitavano qua vicino, al Miramar».
Il Miramar è un residence situato qualche centinaio di metri più a nord del villaggio ‘‘Il Gabbiano’’. Nemmeno questa novità mi scalfì più di tanto. Oltre tutto, il sospetto m’era sorto nell’istante stesso che l’avevo conosciuta, quando proprio Ela mi aveva confidato:
«Non voglio andare né sulla strada né lavorare ai night».
‘‘Be’, siete proprio travolti da un amore ardente l’uno per l’altra’’, pensai. ‘‘Lei, per farmi credere di disprezzarti, afferma che sei vecchio, ubriacone, cocainomane e invertito, e tu me la descrivi come una puttanella bugiarda perché hai paura di un mio eventuale interessamento nei suoi riguardi. Fate pena, tutti e due’’.
«Questa ragazza», gli dissi, «ha una bambina di dieci anni e né lei né la figlia, nelle attuali condizioni, hanno un futuro. Tu vivi da sempre qui, a San Leonardo, un minimo di conoscenze ce le avrai, suppongo. Perché non provi a darle una mano? A trovarle un lavoro? Magari come domestica, come sguattera. Qualcosa così».
I Rayban mandarono un lampo indispettito.
«Io penso solo ai cazzi miei».
‘‘Bravo, complimenti’’, lo elogiai col pensiero, ‘‘pragmatici bisogna essere. Ma non ti rendi conto che ti stai sputando in faccia?’’.
No, non se ne rendeva conto. Se ne avesse avuto la capacità non sarebbe stato il Bullo di Casacalenda.
Ah, questi satiri di paese.

9.
Alle due passate finalmente Ela servì la zuppa di pesce. Ci sedemmo così a tavola. O meglio, ci sedemmo ai due tavolini, quello rotondo e quello rettangolare, accostati davanti al divanetto e coperti da un plaid a mo’ di tovaglia.
Il Bullo di Casacalenda non si unì a noi, ci lasciò, sostenendo di aver partecipato la sera precedente a una cena pantagruelica e non smaltiva ancora l’eccesso di nutrimento ingurgitato.
Neanche Ela si mise a mangiare, almeno non subito. Se ne tornò nel cucinino a friggere per sé petto di pollo. Il pesce non le piace.
Quella zuppa, malgrado l’aspetto, a essere onesti cattiva non era. Riuscii a gustarmela con comodo in punta di coltello e forchetta, come piace a noialtri inguaribili borghesi, inzuppando di tanto in tanto il pane nella broda. Gli altri commensali pescavano – in fin dei conti si trattava di pesce – il cibo con le mani e lo innaffiavano a volontà con grappa e montepulciano.
Assaggiai anch’io un goccio di grappa. Era liquore casalingo. I rumeni a fine settembre lo avevano cioè illegalmente distillato dalle vinacce. Potabile, tutto sommato.
Ela, fritto il pollo, con il piatto sedette alla sinistra di Dana, a sua volta seduta alla mia sinistra. Iniziò a mangiare portando alla bocca i pezzi di carne con la destra. Mi spiava, mi accorsi, di sottecchi, sporgendo di tanto in tanto il capo in avanti. Facile intuire quali impegnative domande le frullassero in mente. Aveva paura che la cordiale confidenza tra lei e il Bullo, di cui ero stato fresco testimone, suscitasse in me una cattiva impressione. Doveva perciò inventare a tutti i costi qualcosa per porvi rimedio.
Al termine del pranzo e delle cospicue libagioni, a sera ormai incipiente, arrivò un omaccione di mezz’età. Era italiano e si distingueva per le spalle e le braccia vigorose. Inoltre, la voluminosa faccia rossastra e soprattutto la pancia erano tipiche di chi a tavola non teme rivali.
Era venuto a riprendere e riportare a casa la coppia di coniugi e la loro bambina, non avendo questi la macchina. Lo conoscevano tutti, capii. A Ela, stravaccata sul divanetto con il petto di pollo e svariati cicchetti di grappa nello stomaco, chiese evidentemente chi fossi, perché la sentii dire:
«Lui è l’amore mio».
Non mi scomposi, benché la notizia risultasse abbastanza stravagante, specie a me che ne ero del tutto ignaro. Nell’intimo però una domanda divertita me la rivolsi: ‘‘Ah, sì, e da quando?’’.
Ma fu qualche minuto più tardi che Ela si giocò il tutto per tutto, dichiarando ad alta voce – del resto ero seduto a una certa distanza da lei – affinché ognuno dei presenti udisse bene:
«Io voglio un figlio da te».
Stavolta non mi venne da ridere. La pena m’inibì qualsiasi spiritosaggine. Aveva abortito sì e no da un mese ma ricorreva a qualunque trucco per far di me un suo cliente, come d’altronde suoi clienti già erano Gregorio e il Bullo.
Non avevo scelta. Mi alzai e andai via, camminando tranquillo verso casa nella tiepida sera autunnale.

Il diciotto dicembre Ela e gli altri tre rumeni sono partiti per trascorrere in patria le festività di fine anno. Gregorio è tornato a San Leonardo la sera del sei gennaio. Da solo, senza la donna. Qualche giorno più tardi mi disse, sebbene nulla al riguardo gli chiedessi, che dopo di lui anche Ela era tornata. Lavorava adesso in un night di Larino, del quale il Bullo di Casacalenda è uno dei comproprietari. Come pure è comproprietario di un night a Vasto.
E con questo il cerchio si chiude.