giovedì 31 agosto 2017

Articolo uno, primo comma

Il primo comma della nostra carta costituzionale, assurto ormai a vero e proprio totem, recita: ‘‘L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro’’.
Esprime, almeno così sostengono i ben informati, il cosiddetto principio lavorista. Un principio di cui c’è poco d’anadar fieri.
Per due ragioni.
In democrazia l’elemento decisivo è rappresentato dalle potestà politiche dei cittadini. La democrazia è formata da cittadini-elettori, i quali scelgono con il voto chi, per un periodo determinato, debba governarli, essendo la democrazia né più né meno che un sistema nel quale il potere di governo si conquista attraverso la competizione elettorale. Il principio lavorista riduce invece il cittadino a semplice produttore, a cittadino-lavoratore. Questa è la prima ragione.
La seconda è addirittura peggiore.
Il principio lavorista fu uno dei cinque vessilli dottrinali del regime fascista (gli altri quattro furono: il principio totalitario, il principio della superiorità etica dello stato, il principio corporativo e il nazionalismo bellicista).
Nel primo convegno sindacale di Bologna, tenutosi nel gennaio del 1922, i sindacalisti fascisti fissarono cinque punti programmatici, il primo dei quali ratificava appunto il principio lavorista, descritto nei seguenti chiarissimi termini:
Il lavoro costituisce il sovrano titolo che legittima la piena ed utile cittadinanza dell’uomo nel consesso sociale”.
Quel convegno, inoltre, nominò segretario generale della Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali Edmondo Rossoni, un sindacalista rivoluzionario che aveva aderito al fascismo, il quale sosteneva la necessità di superare il principio proletario e attuare il principio lavorista, perciò i proletari dovevano essere definiti lavoratori e i padroni dirigenti.
Il principio lavorista, sia detto per inciso, era perfettamente funzionale al principio corporativo, in base al quale le organizzazioni di categoria, sia quelle dei prestatori d’opera come anche quelle dei datori di lavoro, diventavano componenti strutturali dello stato.
Per amor di verità dobbiamo riconoscere che i fascisti diedero concreta attuazione al principio lavorista.
Con la legge 3 aprile 1926 sancirono l’efficacia erga omnes dei contratti collettivi di lavoro (norma supinamente recepita dal quarto comma dell’articolo trentanove della costituzione repubblicana entrata in vigore il primo gennaio 1948).
Con la carta del lavoro approvata il 21 aprile 1927 dal gran consiglio del fascismo sancirono tra l’altro le ferie retribuite, l’indennità di fine rapporto e, per la risoluzione delle controversie, riservarono la competenza alla magistratura del lavoro.
Con regio decreto 23 marzo 1933 diedero vita all’Istituto nazionale fascista per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (oggi Inail).
Con regio decreto 27 marzo 1933 diedero vita all’Istituto nazionale fascista della previdenza sociale (oggi Inps).


La morale della favola è chiara: il fascismo ha lasciato un solco profondo nella cultura politica e sociale del nostro paese, benché gran parte di noi ne sia inconsapevole. Tanto profondo da permeare la nostra legge fondamentale. Per chi come me condivide gli ideali liberali non resta che provare un amaro sconcerto.

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