Il
primo comma della nostra carta costituzionale, assurto ormai a vero e
proprio totem, recita: ‘‘L’Italia è una Repubblica
democratica fondata sul lavoro’’.
Esprime,
almeno così sostengono i ben informati, il cosiddetto
principio lavorista. Un principio di cui c’è poco d’anadar
fieri.
Per
due ragioni.
In
democrazia l’elemento decisivo è rappresentato dalle potestà
politiche dei cittadini. La democrazia è formata da
cittadini-elettori, i quali scelgono con il voto chi, per un periodo
determinato, debba governarli, essendo la democrazia né più
né meno che un sistema nel quale il potere di governo si
conquista attraverso la competizione elettorale. Il principio
lavorista riduce invece il cittadino a semplice produttore, a
cittadino-lavoratore. Questa è la prima ragione.
La
seconda è addirittura peggiore.
Il
principio lavorista fu uno dei cinque vessilli dottrinali del regime
fascista (gli altri quattro furono: il principio totalitario, il
principio della superiorità etica dello stato, il principio
corporativo e il nazionalismo bellicista).
Nel
primo convegno sindacale di Bologna, tenutosi nel gennaio del 1922, i
sindacalisti fascisti fissarono cinque punti programmatici, il primo
dei quali ratificava appunto il principio lavorista, descritto nei
seguenti chiarissimi termini:
“Il
lavoro costituisce il sovrano titolo che legittima la piena ed utile
cittadinanza dell’uomo nel consesso sociale”.
Quel
convegno, inoltre, nominò segretario generale della
Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali Edmondo
Rossoni, un sindacalista rivoluzionario che aveva aderito al
fascismo, il quale sosteneva la necessità di superare il
principio proletario e attuare il principio lavorista, perciò
i proletari dovevano essere definiti lavoratori e i padroni
dirigenti.
Il
principio lavorista, sia detto per inciso, era perfettamente
funzionale al principio corporativo, in base al quale le
organizzazioni di categoria, sia quelle dei prestatori d’opera come
anche quelle dei datori di lavoro, diventavano componenti strutturali
dello stato.
Per
amor di verità dobbiamo riconoscere che i fascisti diedero
concreta attuazione al principio lavorista.
Con
la legge 3 aprile 1926 sancirono l’efficacia erga omnes dei
contratti collettivi di lavoro (norma supinamente recepita dal quarto
comma dell’articolo trentanove della costituzione repubblicana
entrata in vigore il primo gennaio 1948).
Con
la carta del lavoro approvata il 21 aprile 1927 dal gran consiglio
del fascismo sancirono tra l’altro le ferie retribuite, l’indennità
di fine rapporto e, per la risoluzione delle controversie,
riservarono la competenza alla magistratura del lavoro.
Con
regio decreto 23 marzo 1933 diedero vita all’Istituto nazionale
fascista per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (oggi
Inail).
Con
regio decreto 27 marzo 1933 diedero vita all’Istituto nazionale
fascista della previdenza sociale (oggi Inps).
La
morale della favola è chiara: il fascismo ha lasciato un solco
profondo nella cultura politica e sociale del nostro paese, benché
gran parte di noi ne sia inconsapevole. Tanto profondo da permeare la
nostra legge fondamentale. Per chi come me condivide gli ideali
liberali non resta che provare un amaro sconcerto.
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