venerdì 21 febbraio 2014

Come proteggersi dai politicanti

Le recenti vicende accadute in alcuni paesi dell’eurozona pongono al centro dei nostri urgenti interessi la ricerca di adeguate tutele da politiche economiche nocive. In altre parole, è indispensabile limitare la pericolosità dei politicanti.
Gli elementi oggettivi sui quali intavolare il discorso sono due.
Primo, i politicanti hanno il tremendo potere di manovrare a piacimento i rubinetti della spesa pubblica e d’imporre tributi a cittadini e imprese. Come la recente e antica esperienza storica ci dimostra, possono fare l’una e l’altra cosa con incredibile incompetenza e spiccato senso d’irresponsabilità.
Secondo, la relazione tra grandezze economiche è di tipo dinamico, non statico. Ciò significa, per esempio, che un aumento della pressione fiscale determina inizialmente una crescita del gettito tributario ma poi, specie se il prelievo fiscale e parafiscale ha già superato la metà del prodotto interno lordo, cadono i consumi e gli investimenti, cioè il valore della ricchezza prodotta, e si restringe così la base imponibile dalla quale lo stato attinge le entrate, che per forza di cose si riducano.
Detto in altri termini, un aumento delle imposte, soprattutto se accompagnato da un contemporaneo taglio alle spese pubbliche, danneggia il sistema economico e impedisce un risanamento della finanza statale, poiché il debito sale anziché scendere. Politiche economiche di tal fatta accrescono soltanto il numero di aziende che chiudono, nonché il numero dei disoccupati. Spagna, Grecia, Irlanda Portogallo e Italia, avviandosi in questi ultimi anni per la triste china che sappiamo, hanno fornito un’ampia prova della inutilità e disumanità di politiche economiche suicide.
I politicanti, ciò malgrado, se ne sono altamente infischiati e finora non mostrano alcuna intenzione di voler correggere le loro sconsiderate condotte antisociali.
Dunque, dobbiamo proteggerci.

Agli inizi del 2012 venticinque nazioni appartenenti all’Unione europea hanno sottoscritto il cosiddetto patto di bilancio (per gli anglofoni, fiscal compact). Inglesi e cechi hanno preferito astenersene.
La pietanza forte del nuovo trattato è rappresentata dall’obbligo, per gli stati, di perseguire il pareggio di bilancio, regola recepita con norme di rango costituzionale nelle varie legislazioni nazionali. Il parlamento italiano vi ha provveduto nel luglio 2012.
Il vincolo del pareggio di bilancio ha ricevuto molte critiche, la più seria delle quali sottolinea l’impossibilità, qualora la congiuntura economica lo imponga, di attuare politiche economiche anticicliche tramite la spesa in deficit. Un ulteriore elemento suscita poi non poche perplessità. Mi riferisco al fatto che i politicanti possano sentirsi indotti a raggiungere il pareggio non riducendo privilegi, sprechi e spese improduttive, ma aumentando semplicemente le tasse. Il che equivale a gettare benzina sul fuoco.
Poiché nulla ci garantisce che i politicanti di colpo rinsaviscano e la smettano di aprire senza criterio i rubinetti della spesa pubblica, l’unica speranza che abbiamo di fargli diminuire gli sprechi e le inefficienze consiste nello stabilire un limite costituzionale alla pressione fiscale. Insomma, dobbiamo togliere un po’ d’acqua ai pesci. O, per essere più precisi, togliere acqua agli squali.
Se nella costituzione venisse introdotta una norma che fissi al quaranta per cento del reddito nazionale l’ammontare massimo delle imposte esigibili, si ridarebbe fiato all’economia per effetto del ridotto onere fiscale, abbattendo in misura considerevole la disoccupazione, e s’imporrebbe una concreta disciplina agli spreconi al governo.
I soldi facili, in mano ai politicanti, diventano letame. Più gliene diamo, peggio è per noi. Il brutto andazzo va quindi corretto e la soluzione è una sola: dobbiamo dargliene, per legge, di meno.



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