Il timore che le tristi vicende dell’euro travolgeranno l’Unione europea allarma ormai le menti di molti. E’ però una paura eccessiva. Sin dagli esordi, 25 marzo 1957, giorno della firma a Roma dei trattati dai quali nacque la Comunità economica europea, l’Unione è stata ed è sostanzialmente rimasta una lega doganale – uno zollverein, come dicono i tedeschi – sia pure animata dall’aspirazione di puntare a un’unità politica alla quale tuttavia non si è finora giunti.
Esiste dal 1979 un parlamento europeo eletto dai cittadini, verissimo, che non è comunque un organo legislativo, poiché esercita soltanto esigue funzioni di controllo. Il varo di norme spetta infatti alla commissione, cioè all’esecutivo. La commissione non è responsabile nei riguardi del parlamento, ma risponde al consiglio europeo, ossia al consesso dei capi di governo dei paesi membri.
L’Unione europea è dunque un’area di libero scambio, né più né meno, governata secondo la logica e la prassi di un’alleanza. Ecco perché è difficile immaginare che possa disintegrarsi. Nessuno dei paesi aderenti vorrà mai rinunciare ai vantaggi offerti dalla libera circolazione di merci, capitali e persone.
Attriti e difficoltà sorgono, com’è tipico per tutte le alleanze, quando le decisioni vengono imposte dal membro più potente a danno dei più deboli. A causa di ciò l’eurozona, composta dai soli paesi che hanno adottato l’euro, può invece dirsi davvero in bilico.
La cronaca di questi anni è nota. Irlanda, Spagna, Portogallo, Grecia e Italia, in seguito a crisi provocate da un eccesso di debito – privato o pubblico, a seconda dei casi – sono incappati nell’incresciosa situazione di dover obbedire agli ordini emanati dai padroni dell’euro, ovverosia i tedeschi, spalleggiati almeno in parte da chi gli euro li stampa, cioè la Banca centrale europea.
Berlino ha imposto ai malcapitati di adottare politiche economiche procicliche, anziché anticicliche, obbligandoli a ridurre la spesa pubblica e ad accrescere la pressione fiscale.
Effetti attesi di tali amabili consigli, tutti puntualmente verificatisi nei paesi sottoposti alle cure, erano ridurre la produzione, aumentare la disoccupazione, nonché aggravare le condizioni della finanza pubblica. I tedeschi hanno insomma voluto danneggiare gli apparati produttivi dei loro concorrenti e attirare capitali nei propri forzieri.
Hanno avuto, bisogna ammetterlo, un successo strabiliante. Non a caso la loro economia corre oggi a tutta birra, tanto che sono riusciti ad abbassare la disoccupazione al 5%, quasi, mentre nel 2006 sfiorava il 12% della forza lavoro. Le loro vittime languono viceversa nella povertà crescente.
Le finanze pubbliche degli stati in crisi hanno per il momento evitato il collasso perché la Banca centrale europea ha sostenuto con operazioni di mercato aperto i corsi delle loro obbligazioni. La Bce ha inoltre prestato circa mille miliardi alle banche a un tasso dell’uno per cento affinché sottoscrivessero le nuove emissioni di titoli pubblici.
I tedeschi non hanno gradito e, com’era ovvio, hanno inventato una nuova diavoleria, chiamata patto di bilancio europeo (per i poliglotti, fiscal compact). Il patto prevede, per i venticinque stati che l’hanno accettato (Regno Unito e repubblica ceca si sono rifiutati), l’obbligo di perseguire il pareggio di bilancio e l’obbligo di ridurre in venti anni, a un ritmo del 5% l’anno, il debito pubblico entro il limite del 60% in rapporto al prodotto interno lordo.
Nessuno dei paesi in crisi dell’eurozona realizzerà un’impresa tanto titanica. Chiunque continuerà ad aumentare le imposte e a tagliare le spese provocherà una caduta del prodotto interno lordo, un aumento della disoccupazione e un peggioramento delle condizioni della finanza pubblica, gonfiando finché possibile il debito. Verrà quindi il giorno che all’uno o all’altro di questi disgraziati paesi mancheranno le risorse finanziare per pagare pensioni e stipendi. A quel punto, non avranno scelta. Diranno addio all’euro.
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