Il sindaco della mia città non è uno qualunque. Innanzitutto si chiama Massimo, miglior nome possibile per un primo cittadino, e in secondo luogo è medico ospedaliero. Chi lo conosce solo attraverso giornali e televisioni, anziché di persona, sarà di sicuro restio a credere che possieda una qualifica professionale. Il nostro eroe dà infatti l’impressione d’essere il classico politicante senz’arte né parte, dedito ventiquattr’ore al giorno alla propaganda di partito. Eppure è un dottore fortemente legato all’ambito sanitario dal quale proviene, al punto che ha sposato un’infermiera.
Mai del resto dimenticherò un episodio verificatosi alcuni decenni or sono, quando lui, prossimo alla laurea, ricevette a tal proposito i generosi complimenti di mio padre. Non ringraziò. Precisò invece con tragico pessimismo:
«Eh, con la laurea posso giusto andare a fare il sottoccupato in Sardegna».
Merito e fortuna smentirono le sue fosche previsioni. Rimase in Abruzzo, assunto – lui, fervente comunista – all’ospedale civile della nostra città, reparto di medicina interna, il cui primario era fratello di un ministro democristiano.
Nella primavera del 1990 mio padre, prima di morire, su volere del primario, nostro vicino di casa, fu ricoverato per un certo periodo in quello stesso reparto. La sera del ricovero Massimo s’intrattenne a chiacchierare con me. All’epoca insegnavo e lui mostrò una sorprendente ammirazione per il mio campo di studi, quasi lo considerasse più importante della medicina.
Non concordavo con il suo punto di vista. La mia attività risultava senza dubbio intellettualmente appagante – stavo per dire sfiziosa – ma consisteva semplicemente nel prendere i modelli economici e smontarli pezzo a pezzo per vedere come sono fatti dentro, allo scopo di verificare se siano di tipo esplicativo o metaempirico, se risultino cioè viziati o meno da giudizi di valore, e riferire il frutto delle mie ricerche agli allievi che seguivano il mio corso all’università. Una divertente ginnastica mentale nemmeno paragonabile alla concreta utilità offerta a tutti gli esseri umani dalla medicina.
Ma lui, alle mie obiezioni, scuoteva il capo e sospirava, finché confessò:
«Io avrei voluto fare il politico».
Non immaginavo che avesse già intrapreso la strada per realizzare i suoi sogni. Lo scoprii di lì a qualche giorno, quando si votò per il rinnovo del consiglio comunale (l’elezione diretta del sindaco non era stata ancora introdotta). Il suo nome compariva sotto la lista della falce e del martello.
A mia precisa domanda confermò con visibile fierezza. Anzi, non mancò di aggiungere che mio padre avrebbe votato in ospedale, dove sarebbe stato disponibile un seggio volante a uso e consumo dei ricoverati. Magari sperava che il paziente, stante la conoscenza di lunga data, non gli avrebbe negato il voto. Ma mio padre, per la prima volta in vita sua, non volle votare. Stava morendo. A dicembre di quell’anno si sarebbe spento.
In tutta sincerità ignoro se Massimo quella prima volta riuscì a spiccare il volo nell’empireo politico e diventare consigliere comunale. Penso di sì. Qualche anno più tardi fu comunque nominato vicesindaco in una giunta di sinistra. Giunta che deluse gli elettori e a fine mandato fu punita e scalzata dall’opposta concorrenza. Ma per la sua persona si trattò di un insuccesso tattico. Nel 2001 gli si spalancarono addirittura le porte del parlamento, dove si accomodò maestosamente con i galloni di deputato.
Lasciò Montecitorio nel 2007, quando venne trionfalmente eletto, al primo turno, sindaco della nostra città.
Il suo stile di amministratore locale richiama senz’altro alla mente quello altrettanto sanguigno del compagno Bottazzi, in arte Peppone.
A ben rifletterci, non poteva essere diverso, dato che Massimo discende da una famiglia inserita, per unanime ammissione, in quella categoria denominata dai sociologi di strada ‘‘brava gente’’.
La dimora avita è, non certo per pura coincidenza, un quartino delle case popolari del fascio, erette in pieno ventennio in fondo al Vicolaccio. Nel medesimo edificio littorio, a pian terreno, è situata la bottega artigiana dello zio, fabbricante di lapidi cimiteriali.
Il padre fu dipendente dell’Inps. Essendo delegato sindacale, in ufficio non lo si trovava mai. Ad ogni modo, era un gran lavoratore. Lavorava infatti a tempo pieno nello studio del ragionier Gentile, un consulente operante nel ramo paghe e contributi.
Il fratello Valerio, morto giovane, fu persino mio compagno di liceo. Non dal primo anno. Lo divenne per combinazione negli anni successivi. Ce lo ritrovammo in classe da ripetente. Si diceva fosse tossico.
Le prime dimissioni Massimo le diede nel marzo 2011, indispettito dalla maretta che agitava la sua maggioranza. Le dimissioni sono una cosa seria e, quando si danno, bisogna poi ritirarle. Insomma, finì a tarallucci e vino. Pertanto, ritrovata la quiete interiore ed esteriore, le ritirò.
Nel 2012 venne rieletto, stavolta però al ballottaggio, a riprova di un più moderato apprezzamento dei suoi concittadini. I primi di gennaio 2014 sventura ha inoltre voluto che un’indagine penale coinvolgesse per sospette tangenti otto persone, incluso il suo vicesindaco. Dimessosi il quale, Massimo lo ha seguito a ruota.
Ma la fida quiete interiore ed esteriore dopo pochi giorni è tornata prepotente alla ribalta. Ha così convocato una conferenza stampa nell’aula consiliare, annunciando la revoca delle proprie dimissioni e la nomina a vicesindaco di un anziano magistrato in pensione.
Il pensionato, ex procuratore in una città rivierasca, nella quale quand’era ancora in servizio aveva inquisito il sindaco, facendo cadere la giunta di sinistra, sostituta dall’opposta concorrenza, e inquisito inoltre il presidente della regione, causando anche in tal caso la fine della giunta di sinistra, pure questa rimpiazzata dall’opposta concorrenza, onde fugare ogni perplessità ha dichiarato la sua preferenza ideologica al centrosinistra.
Tutto ciò chiarito, Massimo ha chiuso la conferenza con parole lapidarie:
«Noi (pluralis maiestatis?) siamo onesti ma siamo anche tosti».
Beh, per sopravvivere in una società globalizzata bisogna essere FLESSIBILI. Per i prestatori d'opera è un comandamento da non perdere mai di vista.
RispondiEliminaDi quale globalizzazione parli? Immagino ti riferisca alla globalizzazione delle macchiette. In tal caso hai perfettamente ragione, le macchiette sono flessibili per natura, ecco perché non si spezzano ma si adeguano, come Totò insegnava loro.
EliminaSì, certamente. Vedi i diversi Scilipoti & Co.
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