sabato 19 ottobre 2013

Il ritorno di Ela

1.
La mattina di lunedì sette gennaio uscii in terrazza per stendere il bucato. Avevo avviato la lavatrice la sera prima, com’è mia abitudine.
Grigio e basso era il cielo, però non pioveva. Il mare era calmo.
«Signor Gabriele, buongiorno».
Gettai uno sguardo in basso. Il saluto proveniva dal giardiniere del villaggio ‘‘Il Gabbiano’’, un rumeno dalla grande pancia, la fronte bassa, i piedi piatti e, dulcis in fundo, le labbra bavose. Doveva essere da poco tornato a San Leonardo. Aveva infatti passato le festività in Romania. Da circa un anno lo avevo soprannominato il Pappone. Ossia dal giorno che si era permesso di chiedermi se mi serviva una donna. Serviva per... Be’, ci siamo capiti.
«Buongiorno, Gregorio, e buon anno».
«Buon anno. Senta, quella sabato mattina mi ha telefonato per dirmi che viene a stare con lei».
Con l’elegante epiteto di ‘‘quella’’ si riferiva a Mihaela, la sua sfruttatissima convivente, cedutagli in comodato d’uso, sia pur parziale, da un certo Giosuè Zanchiello, proprietario di night, meglio noto come il Bullo di Casacalenda.
«Eh, vorrebbe».
«E lei la fa venire?».
Quella stessa mattina, prima ancora di tirar fuori i panni dalla lavatrice, avevo già spedito a Ela – suo vezzeggiativo da bambina con il quale la trentatreenne rumena desiderava la chiamassi – un sms dal seguente tenore: ‘‘Tra due settimane avrò cinquantasette anni, sono troppo vecchio per te. E se non hai un lavoro è inutile che torni in Italia’’.
«Vuole venire a vivere con me come una moglie, dice, non come un’ospite. E questo non è possibile».
«Per carità, non la faccia venire. Se la fa venire quella dopo due giorni se ne va con qualcun altro. Non è donna da accontentarsi di un uomo solo. Con me così ha fatto. Io l’ho tolta dal night e lei mi ha tradito con tutti».
Me la risi sotto i baffi. Perderla gli rodeva. Uh, se gli rodeva.
«Stia tranquillo, Gregorio, non la farò venire».
Nei giorni immediatamente successivi, puta caso lo incrociavo lungo i vialetti del villaggio, ripeteva petulante lo stesso ritornello:
«Non la faccia venire, per carità, quella se ne va con tutti».
A un certo punto mi scocciai e affinché la piantasse di rimestare di continuo la solita solfa e si convincesse una volta per tutte, gli dissi:
«Senta, già da un pezzo ho spedito a Ela un sms che diceva: ‘‘Tra due settimane avrò cinquantasette anni, sono troppo vecchio per te. E se non hai un lavoro è inutile che torni in Italia’’. Da quel giorno non si è fatta più sentire. Perciò...».
«Ma ce l’ha un lavoro. E’ tornata. Lavora a un night di Larino. Un night di Giosuè».
«E allora lei, Gregorio, di che si preoccupa? Il discorso è chiuso, mi pare».

2.
La mattina di lunedì ventotto gennaio alzai l’avvolgibile della portafinestra e uscii in terrazza per stendere il bucato. Eh, sì, sono abitudinario peggio d’un gatto e metto in moto la lavatrice sempre la domenica sera.
Cielo grigio e basso. Niente pioggia. Mare calmo.
Scorsi sotto la terrazza, di spalle, Ela che risaliva in tutta fretta il viale principale del villaggio. Dunque, era tornata. Tornata dal suo convivente magnaccia che la condivideva in società con il Bullo di Casacalenda.
Nei mesi successivi tenni nei suoi confronti un comportamento estremamente prudenziale. Nel senso che non la guardai mai in faccia né scambiai con lei una parola. Tanto meno un semplice ciao.
Anche con il Pappone mi vidi presto costretto ad assumere il medesimo atteggiamento. Un paio di settimane dopo il ritorno della donna ebbe infatti l’infelice idea di dirmi:
«Non è vero che Mihaela ha lavorato al night di Larino, mi avevano dato un’informazione sbagliata. Ai night non ha mai lavorato. Mai».
«Be’, ma a me il Bullo di Casacalenda ha detto che l’hanno scorso Ela lavorava in un night di Vasto».
«Gliel’ha detto per gelosia. Per invidia. Perché lui alla ragazza non piace. Mihaela non ha mai lavorato nei night. Mai».
Quel ridicolo tentativo di trasformarla di colpo in una verginella, di cui il Bullo era tra l’altro un ottimo cliente, s’interpretava senza sforzo. Il Pappone cercava, reclamizzando la merce, d’esercitare il lenocinio con me. Merce che lui stesso, la mattina del sette gennaio, mi aveva descritto in termini tutt’altro che lusinghieri.
Da quel dì non l’ho più guardato in faccia né gli ho più consentito di rivolgermi la parola. Ora diventa, quando mi vede, nero di bile e a me scappa, insopprimibile, un sorrisetto divertito.

3.
Il pomeriggio del quattro luglio si verificò una novità.
Ero andato a buttare l’immondizia negli appositi cassonetti, posti all’ingresso del villaggio. Da qualche anno a San Leonardo hanno introdotto la raccolta differenziata. Grazie a questa bella pensata si dispone adesso, dove una volta ce n’era uno solo, di una batteria multicolore di cassonetti: quello giallo, quello nero, quello bianco, quello marrone, quello blu. La gente butta così l’immondizia, rigorosamente non separata, come meglio crede. A scelta nel colore preferito. Se vi saltasse perciò in mente d’aprire il cassonetto riservato in teoria al vetro, cioè quello blu, sareste subito assaliti dal tanfo di pesce. Noi italiani, si sa, abbiamo un senso civico che c’invidiano persino in Svizzera.
Scaricato il pattume notai, nel riavvicinarmi a casa, Ela strappare l’erba ai piedi della scarpata della statale sedici, grosso modo all’altezza della mia porta. Non stava da sola ma in compagnia di una ragazzina.
Quell’erba, sapevo, era destinata al coniglietto che i rumeni tenevano in una gabbia accostata alla baracca degli attrezzi, giù verso il mare. Con tutta l’erba che cresceva vicino alla baracca, Ela doveva venire a coglierla proprio davanti casa? Prima domanda.
La seconda domanda era scontata. Riguardava la bambina. E, com’è ovvio, anche la risposta era scontata.
Proprio in quel momento, guarda caso, la donna e la piccola vennero verso di me, senza dir nulla, Ela reggendo un fascetto d’erba nel braccio ripiegato. A quel punto, spinto da un pizzico d’umanità, chiesi:
«E’ lei? E’ Joana Gabriela?».
Rise con la bocca sdentata, sollevando al cielo il viso, felice forse più d’ogni altra cosa nel sentirsi rivolgere da me, dopo mesi e mesi, la parola.
«Sì, è lei. E’ Joana».
La bambina, sua figlia, non potevo non riconoscerla. L’anno prima Ela mi aveva mostrato una foto. Era molto magra e piuttosto piccola per la sua età. Il quattro maggio, se la memoria non m’ingannava, aveva compiuto undici anni. Qualunque sua coetanea italiana sarebbe stata più alta, più robusta e più in carne.
«Sei andata a prenderla tu?».
«Sì, siamo arrivate ieri sera».
«E’ davvero graziosa».
La madre apprezzò il complimento e pronunciò qualcosa in rumeno, al che Joana mi porse la mano, che le strinsi sorridendo.
«Noi ci siamo parlati al telefono. L’anno scorso e quest’anno ai primi di gennaio».
La mamma tradusse. La figlia rimase zitta. E fu tutto. Si avviarono per portare l’erba al coniglietto. Dopo pochi passi Ela si fermò e voltandosi disse:
«Hai sbagliato, Gabi».
«Sì, ho sbagliato».
Tuttavia non intendevamo affatto esprimere lo stesso concetto. Nella sua affermazione era sottinteso: ‘‘a non farmi venire a vivere con te come una moglie’’. Nella mia: ‘‘a non essere riuscito a toglierti dalla testa l’illusione di poter diventare la mia mantenuta’’.

4.
Nelle settimane successive la rumena, se il Pappone non era in vista, quando mi vedeva mi lanciava con la mano un cenno di saluto, che ricambiavo.
La mattina del tredici agosto accesi il cellulare e mi arrivò un messaggino. L’operatore mi avvisava che un numero a me sconosciuto mi aveva chiamato alla undici e ventidue della sera precedente.
‘‘Mah’’, pensai, ‘‘qualcuno che avrà sbagliato numero. Oppure...’’.
Già, oppure...
Insomma, m’insinuò in testa un piccolo sospetto, ragion per cui non cancellai quel messaggio contenente il numero misterioso.
La mattina di domenica diciotto il mio telefonino squillò. Mi chiamava ‘‘quel numero’’.
«Ciao, Gabi, sono io».
«Ciao, Ela».
«Senti, voglio parlare con te».
«Va bene, parla».
«No, usciamo. Ti aspetto alle quattro al cancello. Vieni, sì?».
Di qualcosa aveva bisogno, sennò non mi avrebbe chiamato. Per soddisfare la mia curiosità, un solo modo avevo.
«D’accordo».
Al pomeriggio lei e Joana, entrambe in pantaloncini, mi aspettavano all’ingresso del villaggio. Salirono a bordo. Ela aveva uno zigomo gonfio. M’immisi sulla statale e presi per San Leonardo.
Le portai a passeggio nei vicoli dell’antico borgo medievale, che si erge su uno sperone a picco sul mare e la bambina non aveva ancora visitato. Nella gelateria della piazzetta del Duomo presi due coni, uno per Joana e uno per me. Per Ela no, il freddo le dà fastidio ai denti cariati.
Aveva lo zigomo gonfio, mi spiegò, a causa d’un cazzotto tiratole dal Pappone. Glielo aveva sparato la sera del dodici agosto. Si era rifiutata di soddisfare le voglie del Bullo di Casacalenda che, in presenza di Joana, le aveva afferrato un braccio, cercando di spingerla verso la camera da letto nell’alloggio di proprietà del condominio concesso ai rumeni.
Lei, con la bambina, era scappata fuori. Mi aveva telefonato per chiedermi ricovero, ma il mio cellulare era spento, e dunque già dormivo. Avevano passato quasi l’intera nottata all’aperto, sedute vicino alla baracca degli attrezzi e alla gabbia del coniglietto. Circostanza in seguito confermata dalla guardia giurata che di notte ispeziona il villaggio. Le aveva infatti notate, chiedendosene fra sé e sé il motivo.
Leccati i gelati e finita la passeggiata le riaccompagnai al villaggio.
«Gabi, usciamo stasera».
«Pure stasera?».
«Sì, pure stasera».
A quelle parole la sua strategia mi apparve chiara. Voleva innescare il casus belli, provocare il Pappone, certa ormai che pur nella peggiore delle ipotesi lei e la figlia le avrei ospitate io.
«E va bene. Ceno e vi vengo a prendere».

5.
E così, alle dieci uscimmo di nuovo tutti e tre. Ela non si era cambiata. La bambina al posto degli shorts indossava invece una gonnellina.
Tanto per cambiare, andammo a San Leonardo, stavolta sul lungomare, rigurgitante di gente. Scovato a fatica un buco per la macchina, ci mettemmo in cerca di una balera. La prima che trovammo, all’aperto, si chiamava ‘‘La cala sveva’’. Coppie di mezz’età ballavano il tango. Le dame su tacchi a spillo e i cavalieri in pantaloni scuri e camicia. Noi, in calzoncini e mocassini, avremmo sfigurato. Io poi avrei sfigurato comunque. Non so ballare. Morale della favola, ci defilammo.
Tornammo sui nostri passi e proseguendo sul lungomare fummo attirati dalla musica di un’altra balera, ‘‘Il maestrale’’. Non era altro, in verità, che il bar di uno stabilimento balneare, protetto da un tendone. La pista da ballo non mancava, né mancavano i presunti ballerini, però erano tutti impegnati a chiacchierare e a bere. Noi li imitammo.
Di tanto in tanto qualcuno scendeva in spiaggia, sedeva su una sdraio dello stabilimento e accendeva una canna.
«Vedi», mi diceva Ela, «si drogano».
«Vedo».
E lei, sollevando il bicchiere di birra che teneva in mano:
«La mia droga è questa».
A quella constatazione preferivo tacere, saltellavo insieme a Joana, scimmiottando un accanito frequentatore di discoteche.
Alle due si tornò al villaggio.
«Gabi, stanotte non spegnere il telefono».
«Sta’ tranquilla, non lo spengo. Qualunque cosa succeda, tu chiamami».
Ma la notte, contrariamente alle previsioni, trascorse serena. Neanche il lunedì successe niente. La sera, suppergiù alle otto e mezzo, mentre stavo per infilare una pizza napoletana nel forno a microonde, il mio telefono suonò.
«Gabi, vieni, ci ha cacciato».
‘‘Mh, vendetta a scoppio ritardato’’, pensai.
«Vengo subito».
Scesi in garage, salii in macchina, misi in moto e raggiunsi l’ingresso del villaggio, dal quale si accede all’alloggio del giardiniere. Ela, Joana e bagagli mi aspettavano lì. Caricammo le valigie e portai le due tristi sfrattate a casa.
Madre e figlia dormirono quella notte nel divano letto che arreda il soggiorno. L’estate dell’anno passato, quando ritinteggiai le stanze, mi disfeci dei vecchi materassi. Comprai i nuovi solo per la mia camera, non per quella degli ospiti.
La mattina di martedì venti le accompagnai all’agenzia di viaggi, dove si procurarono i biglietti per il pullman dell’Atlassib che le avrebbe ricondotte in Romania. Partenza, quattro e mezzo di quella stessa notte dalla piazza della stazione ferroviaria di San Leonardo.
La sveglia trillò alle tre e mezzo. Loro due erano già pronte. In macchina andammo alla fermata. Pioveva. La corriera arrivò in anticipo. Mi baciarono e salirono su.
Malgrado la levataccia, ero contento. Se non altro, avevo aiutato una donna a liberarsi del suo magnaccia. Una piccola opera di bene.
Addio, Ela. Tieniti alla larga dai papponi.



2 commenti:

  1. Presentati in uno stile asciutto, naturale, l'insieme di sentimenti ed emozioni s'intrecciano e "potrebbero" straripare, rompere gli argini provocando danni. Le diapositive scorrono nella triste e melanconica cornice comune a tutti i livelli sociali dove si muovono le vittime, chi vive e lascia vivere dando una mano e chi, cinico, vorrebbe farlo sempre a spese altrui.

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    1. E chi dice che non sia cinico anch'io? A modo mio, anch'io ho sfruttato Ela. Dalle sue vicende ho ricavato materiale per i miei scarabocchi. E se ciò che ho scritto è appena appena leggibile è merito delle sue disavventure, non mio. E' merito della povera, cara, ubriacona, contadinella transilvana.

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