Se ne pizzichi uno ti vien subito voglia di scoprire i suoi segreti, è normale.
«Pizzicare chi?», vi chiederete.
Be’, uno scrittore con i fiocchi. Non crederete mica che se ne trovino uno a ogni angolo, com’è invece per le battone e i politicanti.
«E quali segreti vuoi scoprire?».
I segreti del suo ingegno. O forse pensate che per scrivere come Dio comanda basti un colpo di lato B?
Serve testa, sudore e un paio d’occhi capaci di perforare la realtà. Doti che a Enrico Mattioli – er Bukowski de noantri, come lo chiamo io – non mancano. L’ho perciò sottoposto a un serrato interrogatorio, curioso di conoscere la sua testa e i suoi occhi.
Enrico, come diavolo fai a scrivere così maledettamente bene? Raccontami del tuo apprendistato.
Dunque, affermi che io scriverebbi bene… ti aringrazio, non so quanto questo risponda a verità. Il fatto di usare una forma d’arte per esprimermi è un malanno che mi colpì fin dalle scuole superiori, quando formai un complessino di musica rock and blues. Ma non saremmo andati lontani, non c’era troppa qualità e forse nemmeno ardore. Poi, iniziai a lavorare. La vita che si conduce, la noia, l’aridità, spesso ti portano a cercare qualcosa di diverso. Insomma, quella necessità di esprimermi in una stramba forma d’arte non era cessata.
Iniziai a scrivere per una disavventura lavorativa, usai la scrittura tipo una valvola di sfogo, come tutti. Non riesco a capire se sono cresciuto da allora, magari sì.
Che concezione hai della scrittura? Tu parli spesso di arte, mentre io preferisco definire quella del narratore un’attività di tipo artigianale.
E’ complicato parlare di scrittura. Non esiste un’accademia di scrittura. Esistono scuole di scrittura, ma non so quanto siano efficaci. Non riesco a dire se sia una forma espressiva che si possa insegnare a un altro. Per certi aspetti la scrittura è artigianato senza particolare educazione, o almeno, non nel senso comune del termine.
Però devi sbagliare molto, per continuare. Devi credere che questo artigianato – il tuo mi pare il termine più corretto, in fondo – non faccia per te. Devi gettare via un’infinità di roba, ho sempre pensato che chi scrive debba più sfoltire ed eliminare che scrivere. Devi avere una grande capacità di autocritica, perché non è mica facile eliminare un file. Se sopravvivi a questi traumi, forse la scrittura potrà essere la tua strada. Ma non è detto.
Riguardo a me, credo che ci sia un qualcosa che si può solo “sentire”. Hai un foglio davanti a te, cominci a scrivere, riesci a riprodurre un’immagine o una situazione. Lo rileggi, lo correggi, provi, cambi, tenti di verseggiare, di rendere poesia in quelle righe. Questo è ciò che mi è ignoto. Il resto è mestiere. Una trama, i personaggi, gli agganci, gli approfondimenti.
A fronte di tutto devi leggere. Molto. Tanto. Spesso l’ambiente della scrittura e dell’arte in genere è quello in cui si legge di meno. E poi, devi stare attento a non confondere l’arte e la cultura con la tendenza.
Spesso chi scrive cerca solo un genere che abbia un seguito. Spesso chi scrive cerca solo la notorietà. Spesso chi scrive pensa che il suo sia un capolavoro assoluto. Questi sono gli errori che si commettono. Riguardo all’ambiente dell’editoria, finché si continuerà a pensare a essa (l’editoria) in termini di bilancio e di fatturati e credere che dopotutto una casa editrice è un’azienda come un’altra, penso che non si uscirà dal tunnel.
C’è l’auto pubblicazione, certo. Non so dire quanto sia terapeutica, di certo è sempre meglio che pubblicare a pagamento, un aspetto, questo, da evitare in modo assoluto.
Il fatto di aver suonato in passato, poi di aver fatto dei tentativi di scrittura per il teatro, di aver conosciuto attori e attrici, registi, ai quali ho rubacchiato qualcosa, probabilmente ha dilatato le mie ispirazioni.
In quello che scrivo, ci sono sempre dei personaggi che fanno fatica a vivere, che portano alla luce dei disagi. In fondo chi si occupa di queste cose è dentro le cose ma deve esserne anche fuori, credo sia necessario guardare alle faccende della vita con una lente distorta che ti permetta di poterne dare una rilettura.
Quali sono i tuoi tic professionali? Scrivi di notte o di giorno, usi la matita o la penna?
In genere scrivo di giorno, penso che sia retorico il pensare allo scrittore che attende l’ispirazione. Un minimo di metodo ci vuole. Alla fine, come in tante cose, è una sintesi. Per scrivere uso il pc, ma poi per correggere mi piace stampare e proseguire con la penna.
Parlami della tua vita privata. Hai mogli, figli, amanti, cani, gatti, o no?
Non sono sposato. Sono reduce da una convivenza e ora me ne sto a respirare. Del resto, non puoi cercare una persona semplicemente perché se ne stia lì ad aspettarti. Se avessi dei figli o una famiglia, certo potrei dedicare poco tempo alla scrittura.
Passiamo ora alle tue creature, ai tuoi libri.
Dunque... tralascio di dire che i libri sono come dei figli e bla bla bla, perché è chiaro che sono affezionato a quello che ho scritto, altrimenti non lo avrei nemmeno pubblicato. Ho scritto molto - come ti raccontavo in altra parte - forse troppo e ho gettato via di più. Credo di aver composto una trentina di cose ma di averne pubblicate solo sei. Ma anche quelle sei, oggi ti dico che avrei potuto migliorarle.
Avvisiamo la gentile clientela è la storia di un gruppo di lavoratori di un supermercato che finiscono in cassa integrazione. Il vero protagonista è l’ambiente di lavoro e ho tentato di trattare la connessione che c’è tra le merci e le persone che lavorano in un posto come quello, che per me è un tempio del consumismo dilagante, un centro moderno della "roba" di verghiana memoria, anche se in quel caso il protagonista Mazzarò è ossessionato dalla roba al punto che in prossimità della morte con l’eventualità della separazione dai beni materiali, lui tenta di uccidere i suoi animali perché vuol portare quella roba con sé; nella mia storia, il rapporto con le merci è di puro consumo, si acquista e si getta via per consumare dell’altro, l’affezione alle cose non è concepita ed è probabile che sia un segno dei tempi.
Adesso sto provando a scrivere un seguito con un’ottica diversa, diciamo tipo Full Monty, il titolo èLa città senza uscita, ho pubblicato qualcosina sul mio sito perché volevo farne una storia on line, ma visto che mi veniva bene (e non era previsto) ho interrotto e ora ne farò una storia da pubblicare. Vedremo.
Per quanto riguarda Storie di qualunquisti anonimi, mi piace, mi soddisfa, ma oggi eliminerei alcuni aspetti. E’ un romanzo breve, diciamo, una storia minimalista ambientata a Roma in cui cerco di descrivere i sentimenti di un gruppo di ragazzi disillusi dalla vita, dalla storia del nostro paese, che sembrano non credere più in nulla e cercano solo vendette. Vendette sane, ovvio, reazioni a soprusi che ritengono di aver subito.
Il bamboccione, il titolo spiega già molto, è invece un racconto e non un romanzo. Quando sentii quella dichiarazione tristemente famosa, ebbi un sussulto di rabbia e decisi di scrivere la storia di un precario costretto a vivere in famiglia. A parte il fatto che non mi pare un reato e si risponde solo a se stessi delle cose che si fanno e di dove si decide di vivere, penso che chi ragiona e sparla su certe tematiche, che sia un politico o un uomo della strada, sia abbastanza lontano dalla vita delle persone, dai problemi reali. Per molti la crisi di oggi è cominciata tanto tempo fa, e quei molti sono i bamboccioni, appunto. Nulla nasce dal niente e per caso.
Ciangaloni Ciangoni è una storia di resistenza quotidiana. Il personaggio lavora in un albergo come addetto di servizio ai piani e ha un singolare passatempo: raccogliere la posta delle associazioni onluns che gli scrivono per un aiuto, sensibilizzando sulle questioni del terzo mondo. In questo modo, Nick La Puzza, il protagonista, fa un parallelo tra la civiltà industrializzata e i paesi poveri, arrivando alla conclusione di non aver alcun merito per essere nato in un paese sviluppato.
Merda! è un’incursione nel sottobosco dell’arte e dello spettacolo. Il titolo è solo l’augurio che si usa nell’ambiente. Non esiste solo il gossip e la vita patinata. Ci sono molti attori e attrici brave che continuano a lavorare nell’ombra perché non hanno aderenze. Il protagonista è uno che inventerà di recitare per le strade di Roma, ai semafori, i monologhi sul Risorgimento italiano e portarli fino in Sicilia, a Marsala, ricalcando il percorso dei Mille.
La rivoluzione che non c’è è un romanzo che saltella tra il surreale e il reale, dove miti e mitomani s’incrociano, in cui il protagonista si troverà, suo malgrado, coinvolto in un’operazione che ha come scopo il blocco del segnale televisivo e l’occupazione delle banche.
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