sabato 17 agosto 2013

Come muore un rumeno

1.
Questa è una storia tragica che, contrariamente al solito, preferisco raccontare partendo dalla fine anziché dall’inizio. O, per essere più esatti, quasi dalla fine, dato che il nostro sfortunato eroe ancora non è morto. La sua bara non è stata ancora chiusa.
Ciò premesso, arrivo subito al dunque.
Se vi capitasse di leggere sul giornale un titolo del tipo ‘‘Rumeno folgorato da una scarica di ventimila volt mentre tenta di rubare i cavi di rame in una cabina dell’Enel’’, è chiaro che vi verrebbe da sghignazzare a crepapelle. Non è il primo e non sarà l’ultimo rumeno a rimetterci le penne in maniera tanto eccentrica.
L’amore per il rame è pericoloso, in primis.
In secundis, tutto è bene ciò che finisce bene.
Nel caso però abbiate conosciuto quell’uomo, nel caso abbiate conosciuto sua moglie, nel caso abbiate conosciuto la loro bambina di tre anni e mezzo il sarcasmo non vi sorgerà spontaneo. Sarete invece travolti dalla pietà e dalla tristezza.
Il folgorato, un simpaticissimo ventinovenne alto e magro, si chiama Fëdor. L’undici luglio, intorno alle otto di sera, ha scavalcato il recinto di una cabina di trasformazione dell’Enel. Vi si è avvicinato e ha cercato di arrampicarsi al piano rialzato, finché, toccando con la mano un cavo, non è rimasto fulminato dalla scossa.
Il fatto è avvenuto a sud di San Leonardo, la cittadina adriatica dove abito, nei pressi di un campo di volo utilizzato da deltaplani e ultraleggeri. Un particolare rende insolito l’episodio. Una pattuglia di carabinieri si trovava a breve distanza dalla cabina e proprio i carabinieri, attirati dalle urla, sono presto intervenuti attivando i soccorsi. Per questa ragione taluni sostengono che il rumeno non intendesse rubare i cavi di rame ma stesse fuggendo da qualcuno.
Fuggire da chi?
Finora, mistero.
Ricoverato all’ospedale civile, perdura da allora il suo stato di coma e la prognosi, come sarà facile immaginare, non lascia sperare in alcuna guarigione. I medici hanno nel frattempo accertato che ha perso la vista e gli hanno inoltre amputato un piede.
Non ancora morto.
Moribondo.

2.
Conobbi Fëdor, sua moglie Daniela e la figlioletta Stefania il ventinove settembre dell’anno scorso, durante una distillazione clandestina di grappa.
Mi corre qui l’obbligo, me ne rendo conto, di fornire qualche delucidazione preventiva, altrimenti chissà cosa potrebbe saltarvi in testa.
Abito al villaggio ‘‘Il Gabbiano’’, situato lungo la spiaggia, sette chilometri a nord di San Leonardo. Il condominio ha alle sue dipendenze un giardiniere rumeno, un certo Gregorio, originario di Orbeni, individuo dagli occhi porcini, labbra bavose, modi servili, fronte bassissima, cranio ridotto e schiacciato, pancia da cirrotico e piedi piatti. Le sue passioni? Divorare carne e trincare peggio d’un idrovora. Per meglio assecondare la seconda lo scorso anno, a settembre, produsse in proprio il vino e, a fine mese, distillò le vinacce per ricavarne grappa.
Piazzò l’alambicco davanti a casa mia, sotto la terrazza che dà sul mare, dove si trova la baracca degli attrezzi. Notai lo strano traffico e per curiosità scesi a vedere.
In quell’occasione conobbi Fëdor e famiglia, invitati da Gregorio alla degustazione in anteprima del liquore casereccio. Si mostrò con me gioviale sin dall’inizio. La moglie Daniela, tanto grassa quanto magro è il marito, aveva studiato lingue e veniva da Bucarest. La piccola Stefania, bionda e vivacissima, appariva incantevole.
Rividi la famigliola la prima domenica d’ottobre, nell’alloggio di proprietà del condominio ceduto in comodato a Gregorio. Mi trovavo lì perché non avevo saputo, con una scusa plausibile e non offensiva, rifiutare l’invito di mangiare la zuppa di pesce. Per sommo di sventura ci guadagnai un’altra seccatura. Il giardiniere m’informò infatti che il sabato successivo, tredici ottobre, avrebbe compiuto trentott’anni e aveva in programma una favolosa festa di compleanno, perciò avrei dovuto essere tanto gentile da accompagnare la cugina, dato che lui con il triciclo Ape Piaggio da cinquanta centimetri cubici doveva portarci la pecora.
«Ma perché, non festeggerete qui?».
«No, in un posto più comodo. Verrà tanta gente e qui abbiamo poco spazio».
«E va bene».
La sedicente cugina, una contadinella ubriacona proveniente da Augustin, paesino della Transilvania orientale, era in verità la sua convivente. Stava con lui da marzo e si chiama Ana Mihaela. Da me preferiva farsi chiamare Ela, suo vezzeggiativo di quand’era bambina.
Se Gregorio avesse aspettato qualche ora, di sicuro non mi avrebbe mai voluto alla sua festa di compleanno. Ela, tant’è, terminato il pranzo e tracannati vari cicchetti di grappa, rispondendo alla domanda di qualcuno che le aveva evidentemente chiesto chi fossi, dichiarò a voce alta:
«Lui è l’amore mio».
Qualche minuto dopo, non paga, superò addirittura ogni limite, sparando una bordata che avrebbe affondato una corazzata:
«Gabi, io voglio un figlio da te».
Nell’udire quelle parole fui sopraffatto dalla commiserazione. Gregorio fu invece sopraffatto dalla rabbia. Il desiderio di Ela, spogliato delle venature romantiche, si traduceva in pratica nella volontà di cambiare convivente.
Secondo lei, insomma, avrei dovuto sostituire Gregorio.

3.
La mattina di sabato tredici ottobre accompagnai Ela nel luogo prescelto per i bagordi. La prima cosa che le scappò di bocca, mentre andavamo, fu:
«Io vengo a vivere con te. A Gregorio già gliel’ho detto, non voglio più stare con lui».
Non pronunciai né ai né bai, ma decisi all’istante, senza pensarci due volte, che avrei agito di conseguenza per liberarla dalle sue illusioni.
Imboccai, su sua indicazione, la strada per Guglionesi e presto arrivammo alla meta. Si trattava di un casolare fatiscente circondato da un’aia vasta e desolata. Fëdor e famiglia, scoprii in quel momento, abitavano lì.
Gregorio e soci avevano già ammazzato la pecora, appesa per le zampe posteriori a un architrave, e la stavano scuoiando. Le squartarono il ventre per toglierle le interiora. Dopo di che l’infilarono in un girarrosto da loro appositamente costruito tagliando e saldando tubi di ferro. Accesero il fuoco usando tavole d’abete. Lavarono e tagliuzzarono le interiora e le fecero bollire in un pentolone pieno di birra.
La cottura si rilevò una faccenda d’esasperante lentezza. Gli invitati ingannavano l’attesa sbevazzando birra e montepulciano. Ormai era pomeriggio quando Gregorio mi servì, dato che ero l’ospite di riguardo, il primo piatto d’interiora. Con la scusa che aveva cominciato a piovigginare entrai con il piatto nel casale e salii al primo piano, dov’erano le stanzette abitate dalla famiglia di Fëdor.
La moglie Daniela e la figlioletta Stefania, in cucina, guardavano alla televisione un programma rumeno.
«Daniela, le piace la carne di pecora?».
«No».
«Queste sono le interiora cotte nella birra».
«Nemmeno questa roba mi piace».
«Non piace neanche a me».
«Allora diamola al gatto».
Mi prese il piatto di mano e lo posò a un angolo del pavimento. Un gattino dall’aria non troppo in salute, avvicinandosi, cominciò ad annusare.
«Bene», disse Daniela, «per noi adesso cucino io».
Preparò salsicce e patate fritte per noi adulti, cioè lei e io, perché Fëdor rimase giù nell’aia a gustarsi la pecora. Per la bambina, invece, petto di pollo e insalata. Ci mettemmo a tavola e mangiammo, bevendo aranciata e succo di frutta alla pera.
Si chiacchierò di questo e di quello. Tra l’altro mi annunciò con fierezza che aspettava un altro figlio, aveva da pochi giorni accertato la gravidanza. Accennò pure alla situazione in Romania.
«I salari sono di centocinquanta euro al mese ma i prezzi sono come qui», e aggiunse che a suo parere sotto Ceasescu si stava meglio. «Almeno avevano tutti un lavoro».
Dall’aia di tanto in tanto saliva la voce di Ela, che strillava:
«Amore, amore».
«Gabriele, Mihaela la sta chiamando», mi diceva Daniela.
«Davvero?», facevo io. «Non ho sentito. E’ possibile non sentire, no?».
Finito di pranzare giocherellai un po’ con Stefania, mentre la madre lavava i piatti. Calato il buio, ringraziai, salutai e scesi nell’aia.
Rivolsi un saluto sbrigativo al festeggiato e montai in macchina, lasciando Ela, stordita dall’alcol, con un palmo di naso. Le somministravo un’amara medicina e ne ero ben consapevole. Ma avevo altra scelta? No, non l’avevo. Oltre tutto, con lei avevo parlato chiaro sin dai primi tempi della nostra conoscenza:
«Ela, scordati che io possa trattarti come si tratta una puttana. Non ti chiederò mai quanto vuoi per venire a letto con me. E togliti dalla testa che tu possa diventare la mia mantenuta».

4.
Per tutto l’autunno, l’inverno e l’inizio della primavera rividi spesso Fëdor. Durante quei mesi ha infatti lavorato per Gregorio. Il nostro giardiniere, pur essendo regolarmente assunto dal condominio, è in realtà un piccolo imprenditore che svolge per i privati lavori edili e di giardinaggio in nero. Impiega nella ditta clandestina suoi connazionali, ai quali dà da mangiare e da fumare, oltre ad alloggiarli nell’appartamentino cedutogli in comodato.
Con loro è estremamente violento. Una volta, proprio sotto casa, ne inseguiva uno agitando una mazza. Fui attirato dalle grida di terrore del fuggitivo. Dalla terrazza gli ordinai di buttare il bastone. Non se lo fece ripetere, assumendo l’atteggiamento servile che usa con i condomini.
I maltrattamenti non invogliano i poveracci a lavorare a lungo per lui. Appena possono, lo piantano. L’avvicendamento di braccia è perciò continuo. I miseri cristi si mostrano sì disposti a faticare, pur di mangiare e dormire in un letto, ma le botte le apprezzano poco.
Questa situazione d’aperta illegalità viene tollerata poiché il suocero dell’amministratore condominiale, grossista di sali e tabacchi, utilizza la ditta di Gregorio per la pulizia del magazzino, ubicato nella zona industriale. Tra ottobre e novembre ricorse a lui persino per lavori edili effettuati a Bologna, dove il suocero è concessionario di un altro deposito fiscale (in burocratichese i grossisti di sali e tabacchi si chiamano così). Gregorio, in quell’occasione, si ruppe un braccio.
A Bologna andò a lavorare anche Fëdor, rimasto ormai solo in Italia. La moglie e la bambina erano tornate a Bucarest. Daniela preferiva proseguire la gravidanza a casa sua e partorire lì.
A febbraio di quest’anno un condomino del villaggio affidò alla ditta fantasma di Gregorio i lavori per ristrutturare l’interno della propria abitazione. Fëdor vi collaborò fino ad aprile, quando, all’improvviso, scomparve per sempre, subito sostituito da un altro rumeno mai visto prima.
Capii così che gl’iniqui rapporti tra lui e Gregorio si erano spezzati. Sono pertanto convinto che se quest’ultimo lo avesse ricompensato meglio, anziché fornirgli soltanto vitto, alloggio e tabacco, Fëdor non avrebbe mai tentato, quel maledetto undici luglio, di salire in cima a una cabina dell’Enel.
Ogni vittima, del resto, ha il suo carnefice.



7 commenti:

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    1. Storia triste, fin dagli esordi.
      Difficilmente mi viene da ridere quando sento che qualcuno ruba "perché ha fame".
      I poveri, i derelitti, coloro che vivono senza alcuna sicurezza, mi suscitano una immensa pietà, oltre che un'infinita tristezza. Quando immagino le loro vite appese sempre e solo a un esile filo! È inimmaginabile.
      M'indigno, e molto, invece, di tutti coloro che rubano pur avendo "la pancia piena". Sono loro i VERI LADRI. Ladri mascherati da bempensanti, da perbenismo, pronti solo ad alzarsi a giudicare, a condannare, a puntare il dito contro, dimenticando che verrà anche per loro il Vero giudizio e allora, finalmente, sarà fatta giustizia e...
      "I poveri siederanno a tavola e i ricchi, tronfi e opulenti, chiederanno elemosina"
      Ciao e grazie
      sinforosa castoro

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    2. La catena dello sfruttamento, cara Sinforosa, è lunga. Gregorio ha sfruttato Fëdor, ma l'hanno sfruttato anche tutti coloro che commissionano lavori in nero al nostro giardiniere. La vita è profondamente ingiusta. Sono angosciato per Daniela, sono angosciato per Stefania, angosciato per il bambino nato proprio a luglio.
      Daniela, tra l'altro, ama leggere e io le regalai una copia del mio ultimo libro, "Il destino, forse".
      Già, il destino.
      Desidero con tutta l'anima che Dio esista - già, proprio io che non sono credente - e che dia loro un po' di conforto.

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    3. Hai ragione, Gabriele, la catena dello sfruttamento è lunga e ci siamo dentro un po' tutti, purtroppo, e neanche ce ne accorgiamo.
      Penso anch'io a quella povera giovane donna con due figli così piccoli, penso alla bimba, che crescerà senza il suo vero papà, a quel bimbo nato da poco... Che tristezza!
      Sono convinta che Dio saprà consolare tutti loro, e un po' anche te, ma ciascuno di noi può fare qualcosa, cominciando col pregare e col "purificare" lo sguardo su tali miserie umane.

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    4. Vorrei poter fare per loro qualcosa di più concreto. Purtroppo, non so come rintracciarli.

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    5. Con tutti i mezzi che ci sono oggi, con tutte le persone che conosci e... la tua fantasia, sono sicura che riuscirai a rintracciarli, te lo auguro.
      Buona domenica
      sinforosa

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    6. Giusto stasera sono stato all'ospedale a trovarlo. Non ho potuto vederlo perché i ricoverati del reparto rianimazione li si può visitare solo dalle sette alle sette e mezzo e io ero arrivato fuori orario. Ho trovato lì la madre e il cugino. La madre mi ha detto che Fëdor non ha subito danni cerebrali e che non è vero che ha perduto la vista. Oltre al piede gli hanno però dovuto amputare in un secondo tempo anche la gamba e inoltre si è beccato una polmonite. Malgrado le notizie non magnifiche è comunque certo che non morirà.
      Ho pregato per lui e continuerò a farlo.
      Ciao.

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