sabato 12 gennaio 2013

Birra, grappa, cocaina e povertà - seconda puntata


Riassunto della prima puntata
A maggio dell’anno scorso mi rivolsi a Gregorio, il giardiniere rumeno del villaggio ‘‘Il Gabbiano’’, dove abito, per chiedergli se mi aiutava a spostare i mobili di casa, dato che dovevo tinteggiare soffitto e pareti.
«Faccio venire la ragazza», rispose lui. «E’ una brava ragazza. Ha già lavorato per Giosuè».
Questa ragazza, Ela è il suo nome, è pure lei un’immigrata e vive da un paio di mesi con Gregorio e altri due rumeni nel piccolo alloggio di proprietà del condominio.
L’avevo notata per la prima volta a marzo, nella Panda verde pisellino guidata da Giosuè, meglio noto come il Bullo di Casacalenda, uno sfaccendato che tutti disprezzano e di cui qualcuno ha addirittura paura, poiché lo ritengono in qualche modo intrallazzato con la malavita.

Seconda puntata
«Va bene», dissi a Gregorio, «la faccia venire domani pomeriggio, alle tre».
Alle tre e mezzo del nove maggio il campanello squillò. Le aprii, ci salutammo, la feci entrare e per poco non svenni.
Per il tanfo.
«Vuol farsi una doccia, signora? Si faccia una doccia».
«No, no».
«E perché? Le do un accappatoio pulito. E in bagno può benissimo chiudersi a chiave».
«No, no».
Spalancai tutte le finestre e ci mettemmo all’opera.
Alla mia attenzione non sfuggirono le piccole mani arrossate, il viso sciupato dal tempo, quel po’ di pancetta, il seno prosperoso, che cominciò a toccarsi con una frequenza un tantino sospetta.
Il suo sorriso sarebbe stato gaio e gentile, se avesse avuto più denti in bocca. Le mancavano i molari superiori e la carie aveva ridotto a moncherini scheletrici i premolari.
Di statura minuta ma ben proporzionata, gli zigomi alti, il nasino all’insù, gli occhi a mandorla di colore verde cupo, un colore che apprezzi in pieno solo quando vi batte la luce, senza le stimmate della sua povertà sarebbe apparsa graziosa e attraente.
Lavorava di buona lena e ogni tanto con le mani si toccava le mammelle, come se dovesse rimetterle a posto. Un trucchetto che alla lunga trovai seccante.
«Ma perché si tocca sempre lì?».
Sorrise. Sorrise con la bocca senza denti e con gli occhi.
«Perché è piccolo», rispose.
Pettoruta com’è, immagino intendesse che piccolo era il reggiseno. A meno che non abbia cercato di darmi il la con una una battuta maliziosa.
Smise comunque di toccarsi i promontori.
Finimmo di svuotare l’armadio contenente i vestiti di mia madre, che dovevo portare a Pescara, ripiegandoli negli scatoloni di cui mi ero provvisto nei giorni precedenti.
«E’ ora di una pausa», dissi.
Ci sedemmo al tavolo del soggiorno, un tavolo rotondo laccato di bianco. Dalla tasca degli shorts sfilò un pacchetto di Stuyvesant e si portò una sigaretta alle labbra. Le tolsi di mano l’accendino e gliela accesi.
Chiacchierammo e presto passò al tu. Seguitai per un po’ a darle del lei, affinché capisse quanto ci tengo alle buone maniere. Ma poi, per non rischiare la figura dell’antipatico, mi convertii anch’io al tu.
«Chissà quanti amici hai», buttai lì scherzando.
«Solo Gregorio, Giosuè e tu».
Noi due ci si conosceva sì e no da un’ora e mezza, definirci amici suonava esagerato. Ma tenni l’opinione per me. A che pro mortificarla?
Sua madre e la madre di Gregorio, m’informò, erano sorelle.
«Allora tu e Gregorio siete cugini».
«Sì, cugini. Io non parlo bene italiano, però capisco tutto».
«Già».
E aggiunse anche, con evidente fierezza, che la madre era ungherese. Dedussi perciò che proveniva dalla Transilvania. Avrei appurato in seguito che la sua famiglia risiede ad Augustin, un paese di mille e seicento anime della Transilvania orientale.
Non tralasciò neppure, senza alcuna mia sollecitazione, d’esprimere un giudizio sul secondo amico:
«Giosuè è vecchio. Ha cinquantasei anni», chiarì.
«Ah, l’età mia. Io lo chiamo il Bullo di Casacalenda, perché gli piace vestirsi in maniera ridicola. Da ragazzino».
«Be’, è vecchio. Cinquantasei anni li dimostra proprio tutti».
Affermazione quanto mai falsa. Peste e corna si può dire del Bullo, fuorché che sia vecchio. Abbronzatissimo da gennaio a dicembre – non a caso per non perdere la tintarella il mese di febbraio lo passa a Cuba – sfoggia un eccellente stato di conservazione. Sport non ne pratica, vero, ciò malgrado non gli si vede un filo di grasso.
Mi disse di aver lavorato in Spagna – «Diciotto giorni», precisò – e aveva una bambina di dieci anni, rimasta con i nonni.
«Come si chiama?».
«Joana».
Di mariti non parlò. Mi annunciò invece che stava per compiere trentadue anni. La qual cosa mi meravigliò non poco. Se avesse detto quarantadue l’affermazione non mi sarebbe parsa per nulla incredibile. Trentadue, invece, altroché se mi pareva incredibile.
«Sì? E quando?».
«Venerdì».
«Dopodomani, quindi. L’undici».
«Sì. Sono nata l’undici maggio del 1980».
Il suo cellulare attaccò a trillare. Rispose e riconobbi la voce di Gregorio abbaiare a pieni polmoni in rumeno. Fu una conversazione veloce, da lei chiusa con rapidi monosillabi. Raccolse il pacchetto di Stuyvesant e tirò fuori due sigarette che lasciò sul tavolo.
«Torno subito», mi disse e uscì di corsa con il pacchetto in mano.
Gregorio, sapevo, non fumava.
Ela, insomma, del tutto libera di fumare non era. Il privilegio di stabilire la razione non le apparteneva. Succede, d’altronde, se non hai i soldi per comprare le sigarette.
Ma un’altra fu la cosa che più mi diede da pensare mentre aspettavo che tornasse.
«Non voglio andare né sulla strada né lavorare ai night», aveva fra l’altro affermato con veemenza durante la pausa.
Una dichiarazione tanto rischiosa che le sarebbe convenuto tenere per sé. Mi riusciva ora impossibile non sospettare che avesse alle spalle esperienze di strada e di night.
Si era fatta una pessima pubblicità.
(2 – Continua)

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