Riassunto delle puntate precedenti
Ela è un’immigrata che vive a San Leonardo con Gregorio – forse suo convivente, benché lei sostenga siano cugini – e altri due rumeni. Intrattiene rapporti ambigui con il Bullo di Casacalenda, da lei definito ‘‘il vecchio’’. Un tardo pomeriggio di giugno mi chiede se l’accompagno a fare la spesa.
Usciti dal supermercato, andiamo in un bar a bere una bibita. E lì, seduti al tavolinetto, ammette implicitamente che il Bullo di Casacalenda è un cocainomane.
Sniffa anche lei?
Sesta puntata
La mattina di lunedì diciotto giugno, tornando da Pescara, dove avevo trascorso il fine settimana, mi fermo all’ingresso del villaggio per dare un’occhiata alla cassetta delle lettere. Scendo dalla macchina e scorgo Gregorio uscire dal suo alloggio e dirigersi di buon passo verso di me.
«Signor Gabriele, a Mihaela è morta la madre».
«O mio Dio, quando?».
«Ieri. I parenti l’hanno chiamata ieri sera alle nove e mezzo dalla Romania e...».
«... e le hanno dato triste la notizia».
«Sì».
«Ed è successo così, all’improvviso?».
«Sì, all’improvviso, non era malata. Un mistero».
«Mi dispiace, mi dispiace davvero tanto. Non c’è dolore più grande che perdere i propri cari. E guardi, parlo per esperienza diretta».
«Ha pianto tutta la notte e ha fumato due pacchetti di sigarette».
«Me l’immagino. Oltre tutto lei era così fiera della madre. ‘‘Mia madre è ungherese’’, diceva. Mi chiedo come farà adesso con la bambina, senza più la nonna che l’accudisce. Per il nonno provvedere da solo alla bambina sarà dura».
«Be’, no, al paese ci stanno la sorella e il fratello di Mihaela. Hanno pure loro figli più o meno dell’età di Joana, e daranno una mano».
«Ela suppongo sia già partita per i funerali».
«Sì, è andata a Roma a prendere l’aereo».
Rincasai, accesi il cellulare e la chiamai. Avrei potuto negarle in quella circostanza una parola di conforto?
No, non avrei potuto.
Sarebbe partita l’indomani, mi disse. La sua carta d’identità era scaduta e per imbarcarsi sull’aereo doveva prima ottenere un foglio di via rilasciato dal consolato rumeno. I guai, come si sa, vengono sempre a frotte.
Una decina di giorni più tardi mi telefonò da Augustin.
«Gabi, torno giovedì prossimo, in pullman. Mi vieni a riprendere tu alla stazione di San Leonardo?».
Mancava esattamente una settimana.
«Va bene. Tu poi fammi sapere a che ora arrivi e io verrò a prenderti».
Quella non fu la sua unica telefonata dalla Romania. Nei giorni successivi mi chiamò anzi più volte. In un’occasione esordì con:
«Gabi, sto dove sta il maiale».
«Ah, nella stalla».
«Ci sono anche le galline. Senti?».
E ascoltando il coccodè delle galline mi figurai l’ambiente contadino del paesino dov’era nata. Il suo mondo, le sue origini rurali.
Mi passava al telefono persino Joana Gabriela. Alla figlia aveva infatti insegnato a pronunciare in italiano:
«Buona serata, Gabi».
«Buona serata, Joana».
In Italia tuttavia non tornò giovedì cinque luglio, come programmato all’inizio. Rinviò prima di un giorno, e dopo di due. Sabato sette luglio non mi fu però possibile andare a riprenderla alla fermata delle corriere. Proprio la mattina di quel sabato l’insorgere di un impegno inatteso mi costrinse a lasciare San Leonardo per una settimana. Glielo comunicai strada facendo mentre raggiungevo Roma.
«Non fa niente», disse.
Per tutta quella settimana tenni il telefonino spento, volutamente. Quando per brevi momenti lo accendevo trovavo le notifiche delle sue chiamate, i suoi sms, i messaggi vocali da lei registrati nella segreteria telefonica. ‘‘Chiamami, chiamami’’, quasi implorava. Ma la mia decisione era presa. L’amara medicina avrebbe curato le sue velleità.
Rientrai a San Leonardo il quattordici luglio e per un paio di giorni non la vidi. Il lunedì, risalendo dalla spiaggia intorno all’ora di pranzo, godutami l’irrinunciabile nuotatina quotidiana, percorrevo il vialetto che fiancheggia il mio giardino e il rumore del motocarro Ape Piaggio di Gregorio attirò la mia attenzione. E’ il modello più piccolo, quello da cinquanta centimetri cubici di cilindrata, e fa un fracasso del diavolo. Arrancava sul dosso della statale sedici che s’innalza parallelo di faccia a casa mia. Ela viaggiava sul cassone e si sbracciava per salutarmi. Le risposi d’impeto, agitando anch’io il braccio, e provai una pena indicibile nel vederla sul cassone di quel trabiccolo color carta da zucchero.
Sul cassone, come una cosa, non come una persona.
La sera stessa cominciò a inviarmi messaggini romantici. Replicai in maniera tutt’altro che galante. Così, per esempio: ‘‘Ela, io non sono il tuo uomo’’. E per rintuzzare la sua insistenza mi spinsi fino al punto d’esprimermi nel modo più crudo: ‘‘Ela, io non sono l’uomo per te, perché ho un carattere duro. Accontentati di chi si veste come un pagliaccio, si profuma come una puttana e porta al polso orologi da cafone’’.
Al che rispose: ‘‘Ma il Bullo – eh, sì, aveva cominciato pure lei a chiamarlo Bullo – non fa l’amore con le donne. E quindi...’’.
Scoppiai a ridere.
‘‘Ma tu guarda questa’’, mi dissi, ‘‘quante se ne inventa per accalappiare un povero scapolo’’.
(6 – Continua)