domenica 27 gennaio 2013

Birra, grappa, cocaina e povertà - sesta puntata



Riassunto delle puntate precedenti
Ela è un’immigrata che vive a San Leonardo con Gregorio – forse suo convivente, benché lei sostenga siano cugini – e altri due rumeni. Intrattiene rapporti ambigui con il Bullo di Casacalenda, da lei definito ‘‘il vecchio’’. Un tardo pomeriggio di giugno mi chiede se l’accompagno a fare la spesa.
Usciti dal supermercato, andiamo in un bar a bere una bibita. E lì, seduti al tavolinetto, ammette implicitamente che il Bullo di Casacalenda è un cocainomane.
Sniffa anche lei?

Sesta puntata
La mattina di lunedì diciotto giugno, tornando da Pescara, dove avevo trascorso il fine settimana, mi fermo all’ingresso del villaggio per dare un’occhiata alla cassetta delle lettere. Scendo dalla macchina e scorgo Gregorio uscire dal suo alloggio e dirigersi di buon passo verso di me.
«Signor Gabriele, a Mihaela è morta la madre».
«O mio Dio, quando?».
«Ieri. I parenti l’hanno chiamata ieri sera alle nove e mezzo dalla Romania e...».
«... e le hanno dato triste la notizia».
«Sì».
«Ed è successo così, all’improvviso?».
«Sì, all’improvviso, non era malata. Un mistero».
«Mi dispiace, mi dispiace davvero tanto. Non c’è dolore più grande che perdere i propri cari. E guardi, parlo per esperienza diretta».
«Ha pianto tutta la notte e ha fumato due pacchetti di sigarette».
«Me l’immagino. Oltre tutto lei era così fiera della madre. ‘‘Mia madre è ungherese’’, diceva. Mi chiedo come farà adesso con la bambina, senza più la nonna che l’accudisce. Per il nonno provvedere da solo alla bambina sarà dura».
«Be’, no, al paese ci stanno la sorella e il fratello di Mihaela. Hanno pure loro figli più o meno dell’età di Joana, e daranno una mano».
«Ela suppongo sia già partita per i funerali».
«Sì, è andata a Roma a prendere l’aereo».
Rincasai, accesi il cellulare e la chiamai. Avrei potuto negarle in quella circostanza una parola di conforto?
No, non avrei potuto.
Sarebbe partita l’indomani, mi disse. La sua carta d’identità era scaduta e per imbarcarsi sull’aereo doveva prima ottenere un foglio di via rilasciato dal consolato rumeno. I guai, come si sa, vengono sempre a frotte.
Una decina di giorni più tardi mi telefonò da Augustin.
«Gabi, torno giovedì prossimo, in pullman. Mi vieni a riprendere tu alla stazione di San Leonardo?».
Mancava esattamente una settimana.
«Va bene. Tu poi fammi sapere a che ora arrivi e io verrò a prenderti».
Quella non fu la sua unica telefonata dalla Romania. Nei giorni successivi mi chiamò anzi più volte. In un’occasione esordì con:
«Gabi, sto dove sta il maiale».
«Ah, nella stalla».
«Ci sono anche le galline. Senti?».
E ascoltando il coccodè delle galline mi figurai l’ambiente contadino del paesino dov’era nata. Il suo mondo, le sue origini rurali.
Mi passava al telefono persino Joana Gabriela. Alla figlia aveva infatti insegnato a pronunciare in italiano:
«Buona serata, Gabi».
«Buona serata, Joana».
In Italia tuttavia non tornò giovedì cinque luglio, come programmato all’inizio. Rinviò prima di un giorno, e dopo di due. Sabato sette luglio non mi fu però possibile andare a riprenderla alla fermata delle corriere. Proprio la mattina di quel sabato l’insorgere di un impegno inatteso mi costrinse a lasciare San Leonardo per una settimana. Glielo comunicai strada facendo mentre raggiungevo Roma.
«Non fa niente», disse.
Per tutta quella settimana tenni il telefonino spento, volutamente. Quando per brevi momenti lo accendevo trovavo le notifiche delle sue chiamate, i suoi sms, i messaggi vocali da lei registrati nella segreteria telefonica. ‘‘Chiamami, chiamami’’, quasi implorava. Ma la mia decisione era presa. L’amara medicina avrebbe curato le sue velleità.
Rientrai a San Leonardo il quattordici luglio e per un paio di giorni non la vidi. Il lunedì, risalendo dalla spiaggia intorno all’ora di pranzo, godutami l’irrinunciabile nuotatina quotidiana, percorrevo il vialetto che fiancheggia il mio giardino e il rumore del motocarro Ape Piaggio di Gregorio attirò la mia attenzione. E’ il modello più piccolo, quello da cinquanta centimetri cubici di cilindrata, e fa un fracasso del diavolo. Arrancava sul dosso della statale sedici che s’innalza parallelo di faccia a casa mia. Ela viaggiava sul cassone e si sbracciava per salutarmi. Le risposi d’impeto, agitando anch’io il braccio, e provai una pena indicibile nel vederla sul cassone di quel trabiccolo color carta da zucchero.
Sul cassone, come una cosa, non come una persona.
La sera stessa cominciò a inviarmi messaggini romantici. Replicai in maniera tutt’altro che galante. Così, per esempio: ‘‘Ela, io non sono il tuo uomo’’. E per rintuzzare la sua insistenza mi spinsi fino al punto d’esprimermi nel modo più crudo: ‘‘Ela, io non sono l’uomo per te, perché ho un carattere duro. Accontentati di chi si veste come un pagliaccio, si profuma come una puttana e porta al polso orologi da cafone’’.
Al che rispose: ‘‘Ma il Bullo – eh, sì, aveva cominciato pure lei a chiamarlo Bullo – non fa l’amore con le donne. E quindi...’’.
Scoppiai a ridere.
‘‘Ma tu guarda questa’’, mi dissi, ‘‘quante se ne inventa per accalappiare un povero scapolo’’.
(6 – Continua)

martedì 22 gennaio 2013

Birra, grappa, cocaina e povertà - quinta puntata


Riassunto delle puntate precedenti
Ela vive a San Leonardo, in un appartamentino del villaggio ‘‘Il Gabbiano’’, insieme a Gregorio e altri due rumeni. Intrattiene rapporti poco limpidi con il Bullo di Casacalenda, da lei definito ‘‘il vecchio’’. Un giorno della seconda metà di maggio mi chiede di accompagnarla in un negozio cinese perché vuole comprarsi un costume da bagno. Al ritorno mi dice:
«Stasera telefono a mia figlia e le dico che mi sono innamorata di un uomo che si chiama come lei», riferendosi naturalmente a me.
Reagisco invitandola, con parole semplici e chiare, a togliersi certi grilli dalla testa.

Quinta puntata
Per tre buone settimane Ela si tenne alla larga da me. Poi, un tardo pomeriggio di giugno, mi vide risalire dalla spiaggia e si avvicinò.
«Gabi, per favore, portami a fare la spesa. Gregorio è uscito e io non ho più niente».
«Non puoi aspettare che torni?».
«E se torna tardi, che cucino? Non ho più niente, niente. Solo un po’ di uova».
‘‘Una frittata ci esce’’, stavo per dirle, ma aveva senso indispettirla con una battuta strafottente?
«Va bene, dammi il tempo di vestirmi e andiamo».
Al supermercato comprò pane, cosce di pollo, un cartone di birra e una damigianetta di montepulciano.
«Piace a Gregorio», mi spiegò mettendo il vino nel carrello.
Alla cassa s’incontrò con una sua conoscente. Si scambiarono saluti e abbracci calorosi. Evidentemente non si vedevano da un pezzo. Era un’italiana. Carnagione chiara, occhi chiari, capelli scuri. Trentacinque, quarant’anni d’età. Non proprio brutta ma tutt’altro che piacente. La classica donna che nessun uomo si volta a guardare, nonostante faccia i salti mortali affinché il miracolo avvenga. Aveva comprato tre o quattro barattoli di birra, che stringeva nel braccio ripiegato. Uno le cadde e io glielo raccolsi.
In seguito Ela mi avrebbe detto che si chiamava Sara. Divorziata e con tre figli sulle spalle. Per un certo periodo avevano lavorato insieme in un ristorante di Vasto, benché Sara abitasse a San Leonardo. Il ristorante aveva chiuso i battenti e loro due erano rimaste a spasso.
‘‘Un ristorante?’’, mi ero chiesto. ‘‘Notturno?’’.
A colpirmi fu però una raccomandazione che l’italiana, quando di lì a breve si salutarono, rivolse alla rumena:
«E comportati bene».
«Sì, sì».
Ciò lasciava supporre che Ela fosse stata licenziata perché non si era comportata bene.
Caricammo gli acquisti nel portabagagli. Accanto al supermercato c’era un bar.
«Vogliamo prendere qualcosa al bar?», proposi.
Non rifiutò. Ci sedemmo a uno dei tavolinetti all’aperto, riparati da un tendone blu, e aspettammo che ci servissero. Venne la cameriera e per me ordinai una Coca Cola. Ela m’imitò.
Iniziammo a sorseggiare la bibita. Lei aveva anche acceso una Stuyvesant. Io, tra un sorsetto e l’altro, sgranocchiavo le patatine fritte.
«Giosuè mi ha fatto pulire tutta la casa. Tutta, tutta gliel’ho pulita. Ci ho messo tre giorni e mi ha dato solo quindici euro».
«Quindici, eh? Generoso», commentai.
«Quindici euro, per tre giorni di lavoro. Che ci compri con quindici euro? Niente».
«Sì, poco e niente, in effetti».
«Prima no, mi pagava bene, ma adesso... E poi è così vecchio... Così vecchio...».
«Be’, tu mi hai detto che gli piace bere. E tra alcol e cocaina», azzardai, «è difficile mantenersi giovani».
«Eh», fece lei, «tra alcol e cocaina...».
Oh cielo, mi aveva implicitamente informato che il Bullo di Casacalenda è un cocainomane. Faceva sniffare la polverina bianca pure a lei? Inevitabile, a quel punto, non domandarselo.
Mah, che squallore.
(5 – Continua)

mercoledì 16 gennaio 2013

Birra, grappa, cocaina e povertà - quarta puntata


Riassunto delle puntate precedenti
Ela è un’immigrata rumena di trentadue anni.
A maggio dello scorso anno Gregorio, giardiniere e custode del villaggio ‘‘Il Gabbiano’’, con il quale lei vive insieme ad altri due rumeni, me la mandò per aiutarmi e a tinteggiare le stanze.
Durante il nostro primo incontro Ela, tra l’altro, mi disse:
«Non voglio andare né sulla strada né ai night».
Lavorò per me nei pomeriggi del nove e del dieci maggio. L’undici, giorno del suo compleanno, non si presentò, benché mi avesse promesso il contrario. Verso le sei e mezzo di sera mi chiamò al telefono, ma non le risposi.
Domenica tredici, dopo pranzo, mi ritelefonò affermando che voleva parlare con me. Arrivata a casa mi disse che la sera precedente il Bullo di Casacalenda, da considerare quanto meno un suo spasimante, aveva dato una festa per lei. Si era divertita ma adesso aveva mal di testa. Interpretai la notizia, e lo scarso entusiasmo speso per esprimerla, come un penoso tentativo di seduzione.

Quarta puntata
Passò quasi una settimana prima che ci rivedessimo. Ad aiutarmi a pitturare non tornò, né a me saltò in mente di chiamarla. Le sue poche ore di lavoro gliele avevo pagate, e dunque non c’era ragione.
La mattina di sabato diciannove maggio fu lei a telefonarmi.
«Gabi, oggi pomeriggio vengo da te».
Immaginai le fosse rispuntata la voglia di lavorare e guadagnare qualche soldo.
«Va bene».
Arrivò poco dopo le due e mezzo.
«Ela, come sei elegante».
Indossava un paio di calzoncini bianchi e una maglietta di cotone dello stesso colore, sbracciata e con scritto sulla schiena, a lettere argentate, ‘‘Job’’. A tracolla portava un borsone bianco e nero. I piedi li aveva infilati in scarpe da ginnastica rosse. Infine, pur annusando con insistenza, cattivi odori non si percepivano.
Rise compiaciuta ed entrò.
«Non puoi lavorare vestita così. Devi cambiarti».
«Eh, non lavoriamo».
«No?».
«No, no. Usciamo».
«A quest’ora? Ma è prestissimo. E per andare dove?».
«Ai cinesi. Voglio comprarmi il costume».
«Dai cinesi? Se nemmeno so dove stanno».
«Lo so io. Davanti ai carabinieri».
Conosceva San Leonardo meglio di me, a quanto pareva. O almeno, sapeva meglio di me dove si vende roba a poco prezzo.
«E’ presto, prima magari prendiamo un gelato e poi andiamo da questi cinesi. Tanto, prima delle quattro, quattro e mezzo, non aprono».
Salimmo in macchina e la portai in centro. Se affermassi che l’accontentavo per pura e disinteressata generosità non sarei sincero. Di me, come datore di lavoro, aveva dimostrato di non sapere che farsene. Mi premeva perciò appurare fin dove volesse spingersi. A quale gioco giocava?
E mi sarebbe inoltre piaciuto scoprire la vera natura dei sui rapporti con Gregorio. Nonché la vera natura dei suoi rapporti con il Bullo, considerando in particolare l’ulteriore complicazione dovuta al fatto che Gregorio e il Bullo erano amici. ‘‘Menage à trois?’’, mi domandavo.
Parcheggiai e c’inoltrammo a piedi nei vicoletti del borgo medievale, che si erge su uno sperone incuneato nel mare, dominato dal castello svevo e sorretto da un altissimo muraglione tondeggiante.
Raggiungemmo la piazzetta del Duomo. Trovammo però la gelateria chiusa.
«Forse aprono più tardi», dissi. «Potremmo andare a prendere il gelato da un’altra parte».
«No, no».
Passeggiammo per perder tempo nei freschi vicoli stretti e, a uno slargo che dava sul mare, ci affacciammo a guardare il porto dal parapetto del muraglione.
Suppergiù alle quattro tornammo alla macchina. Misi in moto e mi diressi verso la caserma dei carabinieri. Di fronte, in effetti, un negozio cinese ci stava sul serio. Entrammo ma costumi da bagno femminili non ne avevano. Non ancora. Su un espositore presso il banco tenevano gli occhiali da sole. Ela cominciò a provarseli, rimirandosi davanti allo specchio. Un paio le piacque.
«Ti piacciono?», fece.
Non tanto, a esser sinceri.
«Certo, sì, mi piacciono. E ti stanno pure bene».
«Quanto costano?», chiese alla negoziante.
«Sei euro».
Glieli pagai io. Per una coppa gelato, grosso modo, avrei speso la stessa cifra.
Tornammo al villaggio. Sembrava contenta. Gli occhiali, naturalmente, erano da subito diventati un ornamento indispensabile. Non glieli avresti levati neanche con le tenaglie. Si era quasi arrivati, quando disse:
«Stasera telefono a mia figlia e le dico che mi sono innamorata di un uomo che si chiama come lei».
‘‘Ah’’, pensai, ‘‘è dunque questo il tuo gioco’’.
«Ma scusa, tua figlia non si chiama Joana?».
«Si chiama Joana Gabriela. Gabriela è il secondo nome».
Dentro di me, da principio, risi. Provai presto però una pena infinita. Se sperava di sedurmi con tattiche così puerili, senza neppure vergognarsi di tirare in ballo la figlia, qualcosa, in quella donna, funzionava male. Decisi, a quel punto, di parlar chiaro:
«Ela, scordati che io possa trattarti come si tratta una puttana. Non ti chiederò mai quanto vuoi per venire a letto con me. E togliti dalla testa che tu possa diventare la mia mantenuta».
L’effetto di queste parole, purtroppo, non sarebbe durato a lungo.
(4 – Continua)

lunedì 14 gennaio 2013

Birra, grappa, cocaina e povertà - terza puntata


Riassunto delle puntate precedenti
Ela è un’immigrata rumena che l’11 maggio 2012 compirà trentadue anni. Abita all’incirca da un paio di mesi insieme a Gregorio, nonché altri due rumeni, in un appartamentino del villaggio ‘‘Il Gabbiano’’ appartenente al condominio.
A maggio dello scorso anno Gregorio, giardiniere e custode del complesso residenziale, me la mandò per aiutarmi a spostare i mobili di casa, dato che dovevo tinteggiare le stanze.
Durante il nostro primo incontro Ela mi dice, tra l’altro, di aver lasciato in patria la figlia di dieci anni e che il Bullo di Casacalenda, uno sfaccendato assieme al quale l’avevo intravista per la prima volta, sarebbe vecchio perché i suoi «cinquantasei anni li dimostra proprio tutti».
E mi disse inoltre qualcosa che mi aveva spinto a riflettere:
«Non voglio andare né sulla strada né lavorare ai night».

Terza puntata
Il pomeriggio di giovedì dieci maggio Ela si ripresentò come d’accordo a casa per lavorare. Stavolta, a differenza del giorno prima, l’insopportabile puzza di sudore non si sentiva.
Si era lavata.
Però gli effluvi alcolici che spargeva dalla bocca li sentivo eccome. Sarebbe bastato accendere un cerino per provocare un incendio.
«Ho bevuto un po’ di birra e un po’ di grappa».
‘‘Un po?’’, pensai.
Persino la sua pancetta, a distanza di ventiquattr’ore, sembrava un tantino cresciuta. Ma forse perché indossava adesso una t-shirt più aderente.
Ci mettemmo al lavoro. Il giorno precedente avevamo svuotato dei mobili una camera. L’aiuto che le avevo chiesto all’inizio non era quindi più necessario, bisognava ora cominciare a scartavetrare e stuccare. Si era comunque offerta di aiutarmi anche a pittare e io avevo accettato. Attorno alle sei smettemmo e ci salutammo, rimanendo intesi di proseguire il giorno dopo.
L’indomani, venerdì undici, giorno del suo compleanno, alle tre non venne. Non mi disperai, lavorai da solo.
La sera, verso le sei e mezzo, attaccò a telefonare. Chiamò tre volte. Non risposi. Non avevamo ormai alcuna urgenza di sentirci. Troppo tardi.
Neanche sabato si fece viva. Né provò a telefonare. Domenica tredici maggio, dopo pranzo, chiamò e io risposi, mosso soprattutto dalla curiosità. ‘‘E questa di domenica cosa diavolo vuole?’’, mi domandai.
«Gabi, voglio parlare con te».
«Va bene, parla, il telefono serve per parlare».
«No, no, non al telefono».
«E allora vieni, così parli quanto e come ti pare».
Mi prese alla lettera, in un certo senso. Varcata la mia soglia e ricevuti i miei tardivi auguri di buon compleanno, disse infatti:
«Ieri sera c’è stata una festa».
«Per il tuo compleanno?».
«Sì. Alla casa di Giosuè».
Mi venne da ridere. Era venuta in sostanza a dirmi che aveva passato la sera, e probabilmente anche la notte, con il Bullo di Casacalenda.
«Gli piace la grappa», disse.
‘‘Be’, piace pure a te’’, non potei fare a meno di pensare.
«Certo mi sono divertita, però adesso ho mal di testa».
«Vuoi un’aspirina?».
«No, no».
Non doveva dolerle poi tanto, la testa, se non voleva l’aspirina. Di sicuro le occhiaie le aveva profonde. Ma alla pessima cera si aggiungeva una specie di delusione.
La festa che il Bullo aveva dato in suo onore non l’aveva resa felice.
No, per niente felice. Qualcosa era andato storto.
O magari non era andato storto proprio nulla e quel suo visetto stanco e un po’ triste era tutta una finta. Una balorda tecnica di seduzione che mirava contemporaneamente a ingelosirmi e a incoraggiarmi.
Aveva sì passato la serata con il Bullo, purtroppo però il Bullo non si era mostrato all’altezza e lei, poverina, si vedeva costretta a cercare di meglio.
‘‘Cercare che’’, rimuginai tra me, ‘‘un altro cliente? Scordatelo’’.
Finito il colloquio, la salutai cordialmente e l’accompagnai alla porta.
(3 – Continua)

sabato 12 gennaio 2013

Birra, grappa, cocaina e povertà - seconda puntata


Riassunto della prima puntata
A maggio dell’anno scorso mi rivolsi a Gregorio, il giardiniere rumeno del villaggio ‘‘Il Gabbiano’’, dove abito, per chiedergli se mi aiutava a spostare i mobili di casa, dato che dovevo tinteggiare soffitto e pareti.
«Faccio venire la ragazza», rispose lui. «E’ una brava ragazza. Ha già lavorato per Giosuè».
Questa ragazza, Ela è il suo nome, è pure lei un’immigrata e vive da un paio di mesi con Gregorio e altri due rumeni nel piccolo alloggio di proprietà del condominio.
L’avevo notata per la prima volta a marzo, nella Panda verde pisellino guidata da Giosuè, meglio noto come il Bullo di Casacalenda, uno sfaccendato che tutti disprezzano e di cui qualcuno ha addirittura paura, poiché lo ritengono in qualche modo intrallazzato con la malavita.

Seconda puntata
«Va bene», dissi a Gregorio, «la faccia venire domani pomeriggio, alle tre».
Alle tre e mezzo del nove maggio il campanello squillò. Le aprii, ci salutammo, la feci entrare e per poco non svenni.
Per il tanfo.
«Vuol farsi una doccia, signora? Si faccia una doccia».
«No, no».
«E perché? Le do un accappatoio pulito. E in bagno può benissimo chiudersi a chiave».
«No, no».
Spalancai tutte le finestre e ci mettemmo all’opera.
Alla mia attenzione non sfuggirono le piccole mani arrossate, il viso sciupato dal tempo, quel po’ di pancetta, il seno prosperoso, che cominciò a toccarsi con una frequenza un tantino sospetta.
Il suo sorriso sarebbe stato gaio e gentile, se avesse avuto più denti in bocca. Le mancavano i molari superiori e la carie aveva ridotto a moncherini scheletrici i premolari.
Di statura minuta ma ben proporzionata, gli zigomi alti, il nasino all’insù, gli occhi a mandorla di colore verde cupo, un colore che apprezzi in pieno solo quando vi batte la luce, senza le stimmate della sua povertà sarebbe apparsa graziosa e attraente.
Lavorava di buona lena e ogni tanto con le mani si toccava le mammelle, come se dovesse rimetterle a posto. Un trucchetto che alla lunga trovai seccante.
«Ma perché si tocca sempre lì?».
Sorrise. Sorrise con la bocca senza denti e con gli occhi.
«Perché è piccolo», rispose.
Pettoruta com’è, immagino intendesse che piccolo era il reggiseno. A meno che non abbia cercato di darmi il la con una una battuta maliziosa.
Smise comunque di toccarsi i promontori.
Finimmo di svuotare l’armadio contenente i vestiti di mia madre, che dovevo portare a Pescara, ripiegandoli negli scatoloni di cui mi ero provvisto nei giorni precedenti.
«E’ ora di una pausa», dissi.
Ci sedemmo al tavolo del soggiorno, un tavolo rotondo laccato di bianco. Dalla tasca degli shorts sfilò un pacchetto di Stuyvesant e si portò una sigaretta alle labbra. Le tolsi di mano l’accendino e gliela accesi.
Chiacchierammo e presto passò al tu. Seguitai per un po’ a darle del lei, affinché capisse quanto ci tengo alle buone maniere. Ma poi, per non rischiare la figura dell’antipatico, mi convertii anch’io al tu.
«Chissà quanti amici hai», buttai lì scherzando.
«Solo Gregorio, Giosuè e tu».
Noi due ci si conosceva sì e no da un’ora e mezza, definirci amici suonava esagerato. Ma tenni l’opinione per me. A che pro mortificarla?
Sua madre e la madre di Gregorio, m’informò, erano sorelle.
«Allora tu e Gregorio siete cugini».
«Sì, cugini. Io non parlo bene italiano, però capisco tutto».
«Già».
E aggiunse anche, con evidente fierezza, che la madre era ungherese. Dedussi perciò che proveniva dalla Transilvania. Avrei appurato in seguito che la sua famiglia risiede ad Augustin, un paese di mille e seicento anime della Transilvania orientale.
Non tralasciò neppure, senza alcuna mia sollecitazione, d’esprimere un giudizio sul secondo amico:
«Giosuè è vecchio. Ha cinquantasei anni», chiarì.
«Ah, l’età mia. Io lo chiamo il Bullo di Casacalenda, perché gli piace vestirsi in maniera ridicola. Da ragazzino».
«Be’, è vecchio. Cinquantasei anni li dimostra proprio tutti».
Affermazione quanto mai falsa. Peste e corna si può dire del Bullo, fuorché che sia vecchio. Abbronzatissimo da gennaio a dicembre – non a caso per non perdere la tintarella il mese di febbraio lo passa a Cuba – sfoggia un eccellente stato di conservazione. Sport non ne pratica, vero, ciò malgrado non gli si vede un filo di grasso.
Mi disse di aver lavorato in Spagna – «Diciotto giorni», precisò – e aveva una bambina di dieci anni, rimasta con i nonni.
«Come si chiama?».
«Joana».
Di mariti non parlò. Mi annunciò invece che stava per compiere trentadue anni. La qual cosa mi meravigliò non poco. Se avesse detto quarantadue l’affermazione non mi sarebbe parsa per nulla incredibile. Trentadue, invece, altroché se mi pareva incredibile.
«Sì? E quando?».
«Venerdì».
«Dopodomani, quindi. L’undici».
«Sì. Sono nata l’undici maggio del 1980».
Il suo cellulare attaccò a trillare. Rispose e riconobbi la voce di Gregorio abbaiare a pieni polmoni in rumeno. Fu una conversazione veloce, da lei chiusa con rapidi monosillabi. Raccolse il pacchetto di Stuyvesant e tirò fuori due sigarette che lasciò sul tavolo.
«Torno subito», mi disse e uscì di corsa con il pacchetto in mano.
Gregorio, sapevo, non fumava.
Ela, insomma, del tutto libera di fumare non era. Il privilegio di stabilire la razione non le apparteneva. Succede, d’altronde, se non hai i soldi per comprare le sigarette.
Ma un’altra fu la cosa che più mi diede da pensare mentre aspettavo che tornasse.
«Non voglio andare né sulla strada né lavorare ai night», aveva fra l’altro affermato con veemenza durante la pausa.
Una dichiarazione tanto rischiosa che le sarebbe convenuto tenere per sé. Mi riusciva ora impossibile non sospettare che avesse alle spalle esperienze di strada e di night.
Si era fatta una pessima pubblicità.
(2 – Continua)

martedì 1 gennaio 2013

Birra, grappa, cocaina e povertà - prima puntata


Gli scrittori vanno sempre a caccia di materiale per i loro libri. E’ un vizio che hanno nel sangue e sarebbe in realtà buffo se non l’avessero. Sarei perciò uno spudorato bugiardo se sostenessi d’esserne privo.
Ce l’ho anch’io, non me ne vergogno.
Nell’anno appena trascorso mi è però capitato qualcosa di sconcertante. Ho raccolto un bottino talmente putrido da non essere utilizzabile, se non forse in minima parte.
A maggio decisi di rimbiancare le stanze di casa. Andai perciò a chiedere al giardiniere custode del ‘‘Gabbiano’’, il quartierino residenziale dove abito e così denominato in due miei racconti, se mi aiutava a spostare i mobili.
‘‘Il Gabbiano’’ è un villaggio turistico costruito a ridosso della spiaggia. Tra la statale sedici e il mare, a voler essere pignoli, sette chilometri a nord di San Leonardo. Si riempie durante la stagione estiva mentre gli altri mesi rimane quasi vuoto. Sono in tutto nove villette in stile moresco più un ex albergo, da tempo trasformato in un blocco di mini appartamenti.
San Leonardo è una cittadina rivierasca bagnata dall’Adriatico centro meridionale. Vi ho ambientato alcuni racconti ma se vi venisse l’idea di cercarla sulla carta geografica non la troverete. Ciò nonostante preferisco ambientarci anche le vicende che sto per raccontare, pur se realmente accadute.
Il giardiniere del ‘‘Gabbiano’’ è rumeno e si chiama Gregorio. Possiede una ragguardevole pancia da cirrotico, occhi furbi e porcini, una faccia da finto fesso e spicca per i suoi modi servili – con i condomini ma non con i suoi connazionali, sia chiaro – nonché per le indubbie qualità di lavoratore tenace.
Andai dunque a chiedergli se mi dava una mano a spostare i mobili perché dovevo pittare le pareti di casa e lui disse:
«Faccio venire la ragazza. E’ una brava ragazza. Ha già lavorato per Giosuè».
‘‘Capirai che referenze’’, pensai. E ciò per tre ordini di motivi. I primi riguardavano la ragazza, i secondi riguardavano Giosuè, gli ultimi riguardavano entrambi.
La ragazza m’ero immaginato fosse la moglie o la convivente di Gregorio. Tanto ragazza, inoltre, non mi sembrava. Dimostra infatti una quarantina d’anni. Abitava da un paio di mesi insieme a lui e altri due rumeni nell’appartamentino di proprietà del condominio, cedutogli in comodato al momento dell’assunzione, risalente al 2008. Una coabitazione – una donna e tre uomini ristretti in un alloggio angusto – che suscita fatale tristezza.
Giosuè è da me simpaticamente soprannominato il Bullo di Casacalenda, paese che gli ha dato i natali. Ama vestirsi come un pagliaccio, profumarsi come una puttana, portare al polso orologi da cafone e, giorno e notte, i Rayban sul naso. D’estate va in giro con slip gialli canarino e, ai piedi, sandali dello stesso colore. Esercita la nobile arte dello sfaccendato e gode del massimo disprezzo da parte di tutti i condomini. Nel senso che nessuno lo guarda in faccia. Sta sempre solo come un cane, se si esclude l’anziana madre con la quale da maggio a settembre vive nell’ultima villetta del villaggio, la più a nord.
Una dozzina d’anni or sono riuscì, per un breve periodo, a farsi eleggere dall’assemblea amministratore condominiale. Alla scadenza del mandato, in vista della nuova riunione annuale, inviò com’è d’uso ai condomini il consuntivo della sua gestione. Mi bastò uno sguardo per accorgermi che l’avanzo di cassa del suo predecessore, ben sette milioni e mezzo di lire, erano d’incanto scomparsi dalla contabilità. In altre parole, se li era intascati.
Alle riunioni di condominio non vado mai, quella volta invece sì, malgrado qualcuno mi consigliasse di lasciar perdere. «Il Bullo», mi dissero «è capace di mandarci i ladri a casa, se gli chiediamo i soldi che ci ha rubato». Non desistetti. Redassi un circostanziato promemoria, da allegare al verbale, per documentare il furto da lui compiuto, e feci del Bullo di Casacalenda carne di porco, schiacciandolo davanti a tutti come si schiaccia un verme. Fu compito del suo successore scucirgli il maltolto e restituirlo pro quota ai condomini.
E ora torniamo alla ragazza – a proposito, le piace che la chiami Ela, vezzeggiativo di quand’era bambina – e al momento che mi accorsi della sua esistenza.
Fu un giorno di marzo, allorché la notai di sfuggita sulla macchina del Bullo, una Fiat Panda color verde pisellino. Supposi fosse una sua rarissima conoscente, o una parente, e l’avesse accompagnato al villaggio per dar da mangiare ai gatti. D’inverno infatti il Bullo dimora nell’altra casa che ha a San Leonardo.
Dovetti tuttavia ricredermi nei giorni successivi. La rividi varie volte spazzare insieme a Gregorio e agli altri due rumeni i viali del villaggio. Capii così ch’era pure lei un’immigrata, probabilmente moglie o comunque compagna di Gregorio, dato che abitava con lui nell’appartamentino del condominio. Né mi meravigliai più di tanto se l’avevo intravista andarsene a spasso in macchina con il Bullo. Non trovando mai nessuno con il quale scambiare una parola, il Bullo con Gregorio s’intrattiene volentieri. Diciamo anzi che sono amici. Ciò doveva avergli facilitato la conoscenza della donna. Lei magari gli aveva chiesto un passaggio e lui non glielo aveva negato. Oltre tutto il Bullo, divorziato da tempo immemorabile, non disdegna le servette. Non per niente fino a una decina d’anni fa conviveva con la sua donna di servizio. La serva, come diceva Totò, serve.
Via, siamo uomini di mondo.
(1 – Continua)